La sinistra occidentale ha perso il suo elettorato tradizionale. Il programma della coalizione francese NUPES ha provato a tenere insieme vecchi e nuovi elettori. Un modello per i progressisti europei?
Le elezioni presidenziali prima e quelle legislative poi hanno ulteriormente esasperato un trend già presente nella politica francese dal 2017, ossia la crisi dei partiti mainstream. Se nel 2017 era toccato ai socialisti di Benoît Hamon il tracollo elettorale più spettacolare, figlio anche di una presidenza Hollande ai minimi storici per consenso, nel 2022 è toccato ai Repubblicani, con la candidata alle presidenziali Valérie Pécresse a doversi confrontare con una perdita di centralità politica mai riscontrata prima.
Lasciando da parte il dato probabilmente più preoccupante, ma meno dibattuto, ossia quello della partecipazione politica – anche in questo caso il trend storico rispetto al calo della partecipazione nelle democrazie europee è ormai assodato – queste elezioni certificano la sconfitta dei blocchi sociali che hanno dominato la scena politica del nuovo millennio.
Dalle macerie del socialismo francese è nato un centro, quello di En Marche del Presidente Emmanuel Macron, capace di attrarre le forze centriste, ma anche di ridare linfa alle spinte centrifughe, tanto a destra, con la rinascita di Marine Le Pen (e la conseguente débâcle del candidato ancora più radicale, Eric Zemmour), quanto a sinistra con Jean-Luc Mélenchon, capace prima di vincere nettamente la contesa contro i vari candidati delle altre forze politiche di sinistra e poi di creare un fronte comune (la Nouvelle Union populaire écologique et sociale) con l’obiettivo di impedire una maggioranza assoluta di En Marche in parlamento.
A voler richiamare un antecedente storico, pur con le tantissime diversità, la Francia al momento si trova in una situazione di pluralismo polarizzato, simile a quello italiano della Prima Repubblica, con effetti che si ripercuotono inevitabilmente sul governo, senz’altro più fragile in Francia dopo le elezioni legislative di giugno.
In Italia, tuttavia, i partiti protagonisti della Prima Repubblica avevano ideologie solide e un ancoraggio sociale profondo nella società, cosa che in Francia manca. Ed è proprio su questo punto che occorre riflettere. Da un lato abbiamo una storica frattura tra città e campagna, o per meglio dire tra grandi agglomerati urbani e città medio piccole in contesti non urbani, la quale immancabilmente si ripresenta nelle elezioni francesi: i bastioni del progressismo e del liberalismo sono i centri urbani, mentre la impropriamente detta “periferia” arride a Marine Le Pen.
Oltre a questo, dato e in attesa di lavori scientifici a riguardo, l’altra grande spaccatura è quella all’interno della società. Una inchiesta preelettorale di IPSOS aveva mostrato come gli elettori di NUPES fossero in effetti in maggioranza quella con salari più bassi, segno che la sinistra in Francia ha parlato alla sua base elettorale con un certo successo; ma guardando alla divisione del voto riguardo al milieu sociale e alla classe lavorativa di provenienza, i settori meno avvantaggiati e la classe operaia hanno optato per Marine Le Pen in maniera preponderante.
NUPES al contrario è risultata la coalizione più votata tra gli impiegati e le professioni intermedie, segno che, come nel resto d’Europa, la sinistra ha consolidato un processo di terziarizzazione del proprio elettorato, ovverosia non più la classe operaia, ma i colletti bianchi.
Questo è un campanello d’allarme – già fatto risuonare in passato peraltro – per le sinistre in generale: la scelta di focalizzarsi su un elettorato formato per lo più da impiegati (pubblici e privati), insegnanti, professionisti socioculturali è dovuta storicamente alla necessità di rompere l’argine del centro per poter conquistare quei settori in crescita numerica, capaci di mobilitarsi alle urne e di garantire un volume di voti tale da vincere le elezioni.
La classe operaia, in calo numerico con la terziarizzazione dell’economia e in retroguardia rispetto all’avanzare del neoliberalismo, non poteva più essere la sola classe di riferimento per questa parte politica. Ciò non significa che i colletti blu (e con essi le nuove generazioni cresciute senza tutele lavorative) abbiano abbandonato in massa le sinistre: diverse ricerche scientifiche hanno mostrato che questo legame sia ancora rilevante, ma negli anni si sia fatto sempre più debole.
A vantaggio di chi? Su questa domanda i politologi e i sociologi stanno ancora dibattendo: uno dei filoni più in voga è sicuramente quello che individua nella destra radicale il recipiente di voti della parte di working class insoddisfatta dalle sinistre.
Si è arrivati a parlare di “proletarizzazione” della destra radicale per mostrare il fenomeno per cui una famiglia partitica capace di pescare voti principalmente da piccoli professionisti, dettaglianti e commercianti (in Francia era questo l’elettorato di Le Pen padre) è divenuta con il tempo centro di gravità per una parte della base sociale storicamente affine alla sinistra.
Allo stesso tempo, una quota sempre più rilevante della vecchia base sociale della sinistra è finita nell’indistinto dell’astensione, di fatto scegliendo di non partecipare alle elezioni. Si tratta di un fenomeno osservato anche in altri Paesi, e diversi sociologi e politologi hanno mostrato una crescente divaricazione nella partecipazione elettorale della classe operaia rispetto alle classi medie.
In alcuni casi, gli studiosi si sono spinti a sostenere che la vecchia frattura di classe non sia più articolata sulla scelta di voto (con la classe operaia ancorata a sinistra), ma sulla partecipazione elettorale. In altre parole, le divisioni di classe troverebbero la propria espressione non tanto nel voto, ma nella scelta fondamentale se votare o meno. Se e come (e da chi) questo segmento smobilitato della classe operaia possa essere riportato alle urne è un tema di fatto aperto e pone la questione della difficoltà di costruire una nuova strategia della sinistra, non solo francese ma di tutti i Paesi occidentali.
Da questo punto di vista, persiste il vecchio dilemma della sinistra di classe, sebbene in una forma rinnovata. Considerata la contrazione strutturale della classe operaia e la conseguente necessità (per certi versi irrinunciabile) di raccogliere consensi altrove per poter essere elettoralmente competitivi, la sinistra di classe e i suoi eredi si trovano di fronte a due strade: da un lato, abbandonare definitivamente le istanze della classe operaia (e rinunciare, quindi, a ogni tentativo di riconquistare i vecchi elettori) per sposare posizioni più moderate che possano invece venire incontro alle domande delle classi medie; dall’altro, tentare di costruire un ponte tra vecchie e nuove diseguaglianze promuovendo una piattaforma comune che possa aggregare interessi diversi.
In questo senso, l’esperienza di NUPES è in qualche modo esemplificativa. Se è vero, infatti, che NUPES (così come altri partiti e coalizioni di sinistra altrove) hanno perso quote importanti di consenso della classe operaia, è altrettanto vero (stando ai dati attualmente a disposizione) che la coalizione guidata da Mélenchon ha saputo attrarre consensi dai giovanissimi, dai lavoratori a basso reddito, nonché dalle minoranze etniche.
Si tratta di sacche di svantaggio socioeconomico emerse da nuove linee di frattura che stanno attraversando le società occidentali (e per lo più connesse ai processi di trasformazione indotti dalla globalizzazione). Gli interessi di questi gruppi non sono sempre in linea con quelli della tradizionale classe operaia industriale e pongono la sinistra di fronte al dilemma di cui sopra.
Per fare alcuni esempi, la precarizzazione del mondo del lavoro (unitamente alla perdita di potere negoziale e capacità rappresentativa delle organizzazioni sindacali), così come la proliferazione di nuove professioni a basso reddito nell’ambito dei servizi (si pensi all’insieme di attività assistenziali e di cura alla persona) sono processi in corso da più di vent’anni che riguardano prevalentemente le generazioni più giovani, che entrano quindi nel mondo del lavoro con meno garanzie e meno diritti delle precedenti.
Inoltre, si tratta di processi che coinvolgono in modo diseguale i diversi segmenti della società, con donne e immigrati (di prima e seconda generazione) più direttamente coinvolti. Di conseguenza, diverse forme di diseguaglianza si intersecano e si compongono in modo del tutto nuovo, esprimendo interessi diversi, in alcuni casi divergenti. Se nel mondo della rivoluzione industriale e per quasi tutto il ‘900 la sinistra di classe ha costruito la propria forza elettorale prevalentemente su un’unica (estremamente pervasiva) divisione sociale (quella tra capitale e lavoro), oggi deve fare necessariamente i conti con una moltiplicazione delle divisioni sociali e delle conseguenti disuguaglianze socioeconomiche che ne scaturiscono. L’interrogativo per la sinistra occidentale è, forse, tutto qui e ruota intorno alla possibilità di costruire una piattaforma economica e sociale in grado di aggregare e comporre in modo armonico gli interessi di una variegata galassia di gruppi sociali in sofferenza.
È presto per dire se l’esperienza di NUPES possa diventare in qualche modo paradigmatica di un nuovo percorso per la sinistra europea; e soprattutto è presto per dire se nel medio periodo la strategia della coalizione (incentrata tra le altre cose su aumento del salario minimo e riduzione dell’età pensionabile, misure che parlano evidentemente a due segmenti anagrafici differenti) possa rappresentare un modello da seguire per saldare gli interessi del vecchio elettorato working class e dei nuovi gruppi socioeconomici svantaggiati. Quello che però sembra emergere dal programma della coalizione è la chiara intenzione di voler lavorare a una progettualità che tenga insieme vecchi e nuovi elettori. Al momento NUPES si è mostrata in grado di mobilitare soprattutto i nuovi gruppi sociali svantaggiati; si vedrà in futuro se e in che misura riuscirà a riportare a casa il vecchio elettorato operaio.