La rivoluzione tecnologica travolge i sistemi economici e sociali. È noto – l’ha spiegato bene, tra gli altri, Roberto Sommella sul Corriere del 4 giugno [2015] – ed è solamente l’inizio: la sua diffusione richiede il compimento di un ciclo di investimenti. Nessuno dubita delle opportunità legate all’innovazione, né può pensare di fermarla. Sono lontani i tempi in cui Newton e Leibniz inventavano contemporaneamente il calcolo infinitesimale e non sapevano uno dell’altro. Il problema, semmai, è se le strutture sociali e politiche dell’Occidente meritino di sopravvivere a questo terremoto e siano in grado di farlo.
Credo lo meritino. Nella storia, niente ha difeso ed ampliato il concetto di dignità della persona come l’evoluzione del rapporto tra democrazia e capitalismo attorno ai principi di sovranità, proprietà, uguaglianza e solidarietà. Non è detto ci riescano. Il filosofo Emanuele Severino ritiene che la tecnica si mangerà tanto il capitalismo che la democrazia.
Dall’inizio del secolo, la produttività cresce ma l’occupazione ed i salari scendono. «La disoccupazione è peggio della povertà», diceva George Orwell: non è pacifico che le società occidentali possano convivere con un «esercito industriale di riserva» indotto dall’innovazione e ben più ampio della «disoccupazione naturale» cui ci ha abituati la teoria economica. Lavoro e crescita non marciano più insieme, la tecnologia premia coloro che la dominano, rende marginali numerose imprese e favorisce una concentrazione industriale di fronte alla quale ben poco potranno le autorità per la tutela della concorrenza. Così aumenta la diseguaglianza: che si è ridotta tra i Paesi ma è cresciuta al loro interno di oltre il 15 per cento tra il 1988 ed il 2008, stando alla Banca Mondiale. Non è non caso. Negli Stati Uniti, la quota di reddito nazionale allocata al lavoro – stabile al 65 per cento dal dopoguerra al 2000 – è scesa di quindici punti percentuali a favore di quella destinata a remunerare il capitale. Lo stesso è successo in Europa. È l’effetto dell’internazionalizzazione della finanza, che va a braccetto con l’innovazione tecnologica e rappresenta – insieme a quest’ultima – la vera discontinuità introdotta dalla globalizzazione. Ogni spesa, pubblica o privata, viene finanziata sui mercati. Le politiche pubbliche dipendono – assai più che dalle preferenze degli elettori – dall’accesso ai mercati e dal costo che questi impongono al debito dei governi; i progetti industriali sono funzione della remunerazione dei capitali raccolti dalle imprese.
Le possibilità di sopravvivenza del nostro modello politico e sociale risiedono nella capacità di gestire il rapporto tra innovazione tecnologica, distribuzione del reddito e principio di sovranità.
Lo Stato, piaccia o no, è il principale motore dello sviluppo di scienza e tecnica: oltre l’80 per cento delle invenzioni più importanti degli ultimi cinquant’anni non sarebbero state possibili senza l’intervento pubblico. Solamente una corretta distribuzione dei proventi delle innovazioni tra contribuenti, azionisti e lavoratori, potrà innescare un circolo virtuoso tra innovazione ed uguaglianza, facendo sì che l’abbondanza creata dalla prima non distrugga la seconda.
Lo si potrebbe fare, ad esempio, costituendo fondi per l’innovazione che assicurino un ritorno trasparente al contributo dato dallo Stato: il quale potrà reinvestire i proventi in altre iniziative, sostenendo anche attività ad elevata intensità di capitale umano qualificato. Ovvero assicurando incentivi fiscali ai «capitali pazienti», per stimolare gli investimenti produttivi di lungo periodo. Che potrebbero essere aiutati da istituti di credito dedicati al finanziamento delle iniziative industriali, condividendo tempi e rischi dell’innovazione. Infine, se la diseguaglianza è «una corsa tra istruzione e tecnologia», un sistema scolastico universale nell’accesso e rigoroso nelle valutazioni renderà meno acuto il divario sociale e creerà cittadini più consapevoli.
Non si tratta di resuscitare lo Stato assistenziale. Bensì di consentire alla democrazia di competere con sistemi che costano meno, garantiscono poco e si dichiarano più rapidi ed efficienti: ma, nel vantarsi della loro minore complessità, si dimenticano di alcune conquiste fondamentali degli ordinamenti liberali.
Spetta alla politica muoversi. Solamente uno Stato non succube delle trasformazioni della storia potrà salvaguardare la sovranità sua e dei suoi cittadini. Ai quali si potranno chiedere impegni e presentare credibili prospettive. Tra le quali, parlando di Europa, quella di aumentare il carattere sovranazionale di quest’ultima come sola opportunità per affrontare un futuro incerto. Non era questa l’idea di coloro che per primi pensarono all’Euro? I quali si sono forse ricordati che, come ammoniva Plutarco, «la distanza tra ricchi e poveri è la piaga più vecchia e letale per tutte le repubbliche».