Costruire e abitare. Etica per la città di Richard Sennet è il terzo volume della sua trilogia sull’Homo Faber dopo L’uomo artigiano e Insieme. Ne pubblichiamo un estratto in occasione dell’incontro pubblico con Richard Sennett Storie di città, storie di cittadini, previsto per mercoledì 30 maggio alle 18.30 presso l’ex chiesetta nel Parco Trotter di Milano, in via Padova 69.
Estratto dal libro Costruire e abitare. Etica per la città di Richard Sennett
Nella prima era cristiana, il termine “città” indicava due luoghi diversi: la Città di Dio e la Città dell’Uomo. […] Anche quando la metafora cristiana andò scomparendo, rimase l’idea che la parola “città” avesse un duplice significato – un luogo concreto e materiale e una rappresentazione mentale, in cui concorrevano percezioni, comportamenti e credenze di vario tipo. […] Fu la lingua francese per prima a risolvere questa distinzione implicita, utilizzando due diverse parole: ville e cité. […] ville indicava la città nel suo complesso, cité designava un luogo specifico […]: da una parte il territorio edificato, dall’altra il modo in cui la gente abita e vive. […] Nel suo saggio Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica, Immanuel Kant nel 1784 osservava che “da un legno cosi storto come quello di cui è fatto l’uomo non si può costruire nulla di completamente diritto”. […] La città sembra storta perché esiste un’asimmetria tra cité e ville. […]
La parola “fare” è cosi comune che di solito non ci si sofferma a riflettere sul suo significato. I nostri avi non erano cosi blasé; i greci erano colti da un sentimento di stupore e meraviglia di fronte al potere di creare anche l’oggetto più triviale. Il vaso di Pandora non comprendeva soltanto elisir esotici, ma anche coltelli, tappeti e vasellame; il contributo umano all’esistenza era quello di creare qualcosa là dove prima c’era il nulla. I greci avevano una capacita di stupirsi che e andata scemando nella nostra epoca disincantata. […] I filosofi del XVIII secolo tentarono di allentare questa tensione concentrandosi su un aspetto del fare: l’impulso a creare un’opera perfetta. […] I filosofi in termini mondani asserivano che le persone si realizzano quando, nel loro ruolo di creatori e lavoratori, cercano di eseguire un’opera perfetta. L’Homo faber così appare ai lettori dell’Encyclopédie di Denis Diderot, scritta tra il 1751 e il 1771, che, un volume dopo l’altro, descrive il modo di lavorare bene, che si sia un cuoco, un contadino o un re. Il risalto posto dall’Encyclopédie sul lavoro pratico fatto bene mette in discussione l’idea di Kant che paragona l’uomo a un legno storto, poiché il lavoratore abile e capace è un essere collaborativo, che adatta i suoi rapporti con gli altri nello sforzo condiviso di creare opere perfette. Nei tempi moderni, la fiducia nell’Homo faber è andata attenuandosi. L’epoca industriale ha offuscato l’immagine del lavoratore fiero del proprio operato, poiché la macchina aveva sostituito le sue abilità e le condizioni in fabbrica degradavano l’ambiente sociale tipico del lavoro stesso. Nel corso dell’ultimo secolo, il nazismo e il comunismo di stato hanno trasformato l’Uomo Creatore in una scandalosa arma ideologica; “Arbeit macht frei” (“il lavoro rende liberi”) era scritto all’ingresso dei campi di concentramento. Oggi, anche se gli orrori totalitari sono usciti di scena, nuove forme di lavoro interinale e a breve termine, oltre alla crescente attività dei robot, stanno negando a un numero sempre maggiore di persone l’orgoglio e la fierezza di sentirsi lavoratori e creatori.
Per capire il ruolo dell’Homo faber nella città, dobbiamo dare un’altra interpretazione al concetto di dignità nel lavoro. Invece di sottoscrivere una visione del mondo, l’Homo faber nella città acquisisce decoro agendo con modalità le cui espressioni possono apparire modeste: ristrutturare la casa a basso costo, piantare nuovi alberi in una strada o in un viale, oppure semplicemente sistemare una serie di panchine a buon mercato dove gli anziani possano sedersi comodamente. L’etica di un’azione modesta e discreta implica a sua volta un certo tipo di relazioni nella cité.
Quand’ero un giovane urbanista, fui convinto dell’utilità dell’etica di una creazione modesta leggendo un libro di Bernard Rudofsky scritto negli anni sessanta, Architecture without Architects. Ormai lontano dall’epoca passata del postmodernismo e della pura teoria, Rudofsky offre un’esauriente documentazione del modo in cui i materiali, le forme e la collocazione dell’ambiente edificato abbiano origine nelle pratiche della vita quotidiana. […] Rudofsky sosteneva che la creazione di nuovi spazi non richiedeva una pretesa artistica consapevole, citando come esempi i granai elegantemente creati a forma di ellisse nella savana boschiva centrafricana o le torri-piccionaie finemente cesellate in Iran, che attraggono i piccioni il cui guano accumulato le trasforma in impianti fertilizzanti. Ecco ciò che intende per architettura senza architetti: il primato della cité e il fatto che la creazione sia una conseguenza dell’abitare.
Consigli di lettura
Fin dall’antichità esiste una tensione tra il modo in cui le città sono costruite e quello in cui le persone le abitano. E oggi la maggior parte della popolazione mondiale abita in città.
In uno studio urbanistico che chiude la trilogia dell’Homo faber nella società, dopo L’uomo artigiano e Insieme, Richard Sennett mostra come Parigi, Barcellona e New York hanno assunto la loro forma moderna e ci guida nei luoghi che sono l’emblema della contemporaneità, dalle periferie di Medellín in Colombia al quartier generale di Google a Manhattan. E denuncia la diffusione globale della “città chiusa” – segregata, irreggimentata e sottoposta a un controllo antidemocratico –, che dal Nord del mondo ha conquistato il Sud del mondo e i suoi agglomerati urbani in mostruosa espansione.
Secondo Sennett, esiste un altro modo di costruire e abitare le città. Nella “città aperta” i cittadini mettono in gioco attivamente le proprie differenze e creano un’interazione virtuosa con le forme urbane. Per costruire e abitare questa città, occorre “praticare un certo tipo di modestia: vivere uno tra molti, coinvolto in un mondo che non rispecchia soltanto se stesso. Vivere uno tra molti, nelle parole di Robert Venturi, permette ‘la ricchezza di significati anziché la chiarezza di significato’. Questa è l’etica della città aperta”.