Queste settimane hanno riportato in scena la politica, le manifestazioni di piazza, i movimenti che hanno riempito le strade e ritrovato la voce. Lo abbiamo visto a ogni latitudine: dal Cile all’Iran, da Hong Kong al Libano, da Tahiti all’Algeria. Jeffrey D. Sachs ha parlato di una massiccia esplosione sociale dovuta alla crescita delle disuguaglianze e al collasso della fiducia nei governi. Donatella della Porta lo ha definito un nuovo Autunno caldo su scala globale, che mobilita nel mondo milioni di cittadini, intrecciando forme di disobbedienza civile e ricerca di alternative possibili.
Queste settimane hanno riportato in scena i corpi: ci hanno ricordato che la politica parte da lì, dalla condivisione di uno spazio in comune, che col corpo abitiamo, trasformiamo, rendiamo più accogliente o, al contrario, ferocemente escludente.
Ci hanno ricordato, le dimostrazioni di piazza di queste settimane, che al tempo della rivoluzione digitale e dell’immateriale è pur sempre con il corpo che facciamo esperienza dell’altro, è con il corpo che entriamo in risonanza e in relazione. È standoci accanto che ci scopriamo simili, prossimi, complici.
Non solo. Ci siamo ricordati che è con il corpo che possiamo esprimere dissenso e agire conflitto. Il corpo si mette di mezzo, fa scudo, produce attrito. È unico, irregolare, mobile, scomposto, imprevedibile. E per questo antagonista. È quel che di più intimo e irriducibile ci resta per dire che no, noi non ci stiamo.
Di queste settimane ci colpisce, infatti, anche il tasso di violenza: gli arresti, i feriti, i morti. In Iran sarebbero almeno 106 i morti durante le proteste contro il caro benzina. A Hong Kong la polizia spara sui manifestanti, salgano a 4.500 le persone arrestate e sono più 2.500 i feriti. In Cile il numero dei morti arriva a 23 mentre si contano 2.400 casi di persone che hanno dovuto ricorrere a cure mediche.
E, in questo quadro, un’inquietudine ancor più amara la producono il numero di violenze subito dalle donne. Sempre in relazione alla situazione cilena Amnesty International lancia l’allarme e parla di stupri usati come arma politica per punire le donne manifestanti. Proprio in queste ore si sta facendo chiarezza sul caso di Daniela Carrasco, “El Mimo”, l’attivista e artista di strada cilena trovata impiccata il 20 ottobre. Ed è di ieri la notizia della morte di Albertina Martínez Burgos, la fotografa delle proteste trovata senza vita nel suo appartamento con segni di percosse e di pugnalate.
Altra scena, altra storia. Il 12 ottobre moriva Hevrin Khalaf, attivista per la pace, Segretaria generale del Partito Futuro siriano, punto di riferimento per i diritti delle donne barbaramente uccisa non lontano da Kobane.
Hevrin Khalaf, attivista per la pace, Segretaria generale del Partito Futuro siriano
E ancora. Apprendiamo proprio in queste ore la notizia dei corpi delle cinque donne ritrovate in mare vicino a Lampedusa. Donne e migranti, figure estreme di corpi che mobilitano se stessi, si fanno carne viva di una resistenza possibile e disperata contro lo sfruttamento, le guerre, la chiusura delle frontiere.
Di queste vicende, che scuotono l’opinione pubblica internazionale, ferisce ancor di più il fatto che i corpi delle donne continuino a risultare, brutalmente, “più corpi” di quelli degli uomini. La fenomenologia e tanta filosofia novecentesca si basano sulla differenza tra Leib e Körper, tra “corpo vivo” e “corpo-oggetto”. Quest’ultimo – il Körper – è il corpo fisico che occupa un certo spazio. Materia ridotta alla mera misurazione.
Poi c’è il Leib: il corpo vivente e vissuto. Il corpo che sente, si muove, fiorisce e sfiorisce. Un’idea di corpo, potremmo dire, che proprio dalla sua origine etimologica vuole prendere le distanze: il corpo dei Greci, il soma, ancora in epoca omerica era il cadavere, il corpo esanime da cui la vita è sfumata.
È millenaria la tentazione di ridurre a soma il corpo delle donne, di farlo essere un corpo docile e assoggettato. Un oggetto – desiderato o temuto, in ogni caso sospetto – su cui esercitare controllo e sfogare prepotenze.
Ricordiamo tutti gli insulti ignobili che ricevette Carola Rackete una volta sbarcata dalla Sea Watch: le si augurava lo stupro. Che altro è lo stupro se non la cancellazione dell’altro, la negazione della sua volontà, la sua riduzione a corpo posseduto e offeso?
Carola Rackete
Oggi è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e questi casi di donne libere ci dicono che ancora non abbiamo fatto i conti con la carica perturbante che le donne sanno sprigionare quando portano nel mondo la loro differenza, il loro coraggio, la loro fierezza, il loro essere qualcosa di più e di diverso dal desiderio maschile.
Ci dicono che sulle donne la repressione si accanisce una volta di più, perché non pagano solo il fatto di aver sfidato il potere, ma scontano la colpa originaria di non essere state al loro posto. Di non essere state solo centimetri compiacenti di pelle da misurare, ma corpo vivo, attraversato da anima, pensieri, fantasie, ambizioni. Ribelli e disobbedienti per il fatto stesso di guardare e guardarsi negli occhi, di confrontarsi alla pari, anzi di sognare più in grande. Senza smettere di credere, malgrado tutto, che il mondo possa essere migliore di com’è.