La ricerca, il giornalismo, l’inchiesta sociale, la critica culturale sono tentativi di restituire la realtà alla sua complessità, contrastando le semplificazioni o le letture propagandistiche dei fatti. Il tentativo di usare l’indagine, lo sguardo critico, il confronto aperto per portare a emersione rimossi, per dare parola a soggetti esclusi, per proporre interpretazioni e immaginari alternativi a quelli egemoni.
Si tratta di uscire da casa propria, di abbandonare le strade note, di adottare sguardi inediti, riconoscendo che non c’è conoscenza senza attrito col mondo.
“Vogliamo che questo sia un foglio di battaglia”, si leggeva nell’editoriale del primo numero dei Quaderni piacentini, usciti nel marzo del 1962. “Ospiteremo testimonianze e opinioni anche contrastanti purché impegnate, vive, serie”: non si tratta di cancellare le divergenze, ma di interpretarle come leve di dibattito, capaci di incoraggiare, soprattutto i giovani, a una “maggiore presenza e partecipazione”.
La rivista – dice Piergiorgio Bellocchio nell’intervista che riproponiamo qui sotto – è stata una grande occasione di “autogestione”. “Era quella che volevamo noi”. Non sono mancati i difetti e gli errori, ma è stata impegno in prima persona. “Né una famiglia né un partito, ma una comunità sì. Eravamo compagni”.
Piergiorgio Bellocchio con le sue riviste, prima i Quaderni piacentini e poi Diario, ha segnato un’epoca. Un intellettuale capace di stare “dalla parte del torto”. Perché, “Siamo immersi in un mondo che va avanti solo con quelle spinte lì: il denaro, guadagnare, e, certo, per me c’è da fare i conti con l’età, con un calo di interesse personale, ma dalla parte del torto bisogna starci per forza, insomma. Se tutto va in una certa direzione, bisogna negarsi, saper dire di no”.
Una lezione che ci teniamo stretta e che oggi si accompagna al dovere laico di non dimenticarlo.
“I morti devono appartenerci. Se rifiutiamo di continuare a conoscerli, di farli vivere per quanto è possibile con noi, li uccidiamo definitivamente. La discrezione che si astiene dal frugare nei loro segreti è solo una comoda scusa per non doversi soffermare sul pensiero della morte. La delicatezza maschera l’abbandono. Ma mentre crediamo di liberarci da un debito fastidioso, ci impoveriamo. È un autoabbandono. Diventiamo ancora più soli, più effimeri, più casuali, più morti di quanto già siamo. Dimenticare i morti è un lusso che non possiamo permetterci”[i].
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[i] Piergiorgio Bellocchio, Dalla parte del torto, “Diario”, n. 1, giugno 1985, p. 25.