Universidad Complutense de Madrid

Il testo è tratto dal volume La grande regressione, a cura di Heinrich Geiselberger e pubblicato da Feltrinelli Editore. Si ringrazia l’Editore per la gentile concessione.

In tutto il mondo stanno sorgendo forti contromovimenti di reazione alla distopia neoliberista.
Per la maggior parte si muovono nell’ambito dell’estrema destra, del nazionalismo identitario, della xenofobia, dell’integralismo religioso e del populismo reazionario.
Le istituzioni politiche occidentali stanno abbandonando il ruolo di mediatrici della deliberazione democratica per diventare anabolizzanti della brutalizzazione del discorso pubblico, delegittimando la discussione politica in quanto la riducono a questioni di sicurezza. Il discorso con cui nel 2014 il primo ministro ungherese Viktor Orban rivendicava una “democrazia illiberale” e la vittoria di Donald Trump nel 2016 sono manifestazioni spettacolari di una dinamica che, in misura maggiore o minore, colpisce
ormai tutti i paesi occidentali. Per esempio, quando si critica la proposta di Trump di costruire un muro tra il Messico e gli Stati Uniti, si sorvola puntualmente sul fatto che lungo l’unica frontiera terrestre fra l’Unione europea e l’Africa – i territori spagnoli nel Nord del Marocco – esiste da anni una tripla recinzione metallica alta sei metri coronata da spuntoni che ha causato atroci ferite a centinaia di migranti. Per fortuna i contromovimenti reazionari sono solo una parte della storia. Esistono anche alternative democratizzanti ed egualitarie che mirano a sfruttare le possibilità create dalla crisi economica per promuovere trasformazioni sociali di vasta portata basate sulla solidarietà transnazionale. Se all’inizio di questo secolo è stata l’America latina il motore dell’antagonismo mondiale che ha raccolto il guanto del movimento No global nato dalla “Battaglia di Seattle” del 1999, forse oggi bisognerà cercare alcuni dei nuovi laboratori di controegemonia nei paesi semiperiferici del Sud dell’Europa.

(…)

Uno dei grandi progressi politici degli ultimi decenni è stato il recupero, da parte dei movimenti sociali, del concetto di democrazia come ideale politico effervescente e impegnativo. Il superamento della concezione tradizionale della politica antagonista come attività eroica, alla portata solo di un pugno di atleti dell’attivismo ben allenati in tutti i tipi di finezze teoriche, e senz’altro un’ottima notizia. In tutto il mondo i movimenti popolari piu vigorosi sono quelli che hanno capito che la rivendicazione della
normalità puo essere l’atto piu radicale in assoluto. Cercare di condurre una vita piu o meno convenzionale, formare una famiglia, avere la possibilita di vivere nel quartiere dove si è nati, studiare ciò per cui si è portati, avere fiducia nelle istituzioni e avere la possibilità di farne parte… Tutto questo costringe a mettere sottosopra il mondo che conosciamo.
Tuttavia, come ha segnalato Anselm Jappe, la retorica del 99 per cento versus l’1 per cento è profondamente sbagliata e ha trasmesso l’idea che il cambiamento politico possa essere tranquillo e aconflittuale. Come se aumentando le tasse ai più ricchi e migliorando i servizi pubblici avessimo già intrapreso il cammino della trasformazione sociale mediante un altercapitalismo piu solidale e verde, una sorta di restaurazione keynesiana del Ventunesimo secolo.
Talvolta pensiamo al postcapitalismo addirittura come a una specie di capitalismo senza capitalisti, quasi che la nostra societa fosse intrisa di solidarietà e servisse solo qualche piccolo aggiustamento per  la scalabilità delle pratiche di cooperazione attuali, in particolare quelle legate alla tecnologia digitale. Non è mai stato così, tantomeno ora che affrontiamo orizzonti ambientali apocalittici.
Del capitalismo, molto più che i fallimenti, dovremmo temere i successi. Una volta Richard Tawney disse che il vero linguaggio della trasformazione politica non è quello dei diritti ma quello dei doveri. “La democrazia e instabile come sistema politico, finchè rimane un sistema politico e niente più, invece di essere, come dovrebbe, non solo una forma di governo, ma un tipo di società, e un modo di vivere che sia in armonia con quel tipo,” scrisse altrove. Credo che questa idea racchiuda una verità profonda, vicina anche a Simone Weil e ad altri socialisti cristiani del periodo tra le due guerre. Forse potrebbe darci l’orientamento per evitare i due vicoli ciechi dell’epica rivoluzionaria e della paralisi del consenso.
Oggi in buona parte della sinistra che si definisce “responsabile”, restia alle scommesse politiche rischiose e ai cambiamenti bruschi, domina un sentimento di nostalgia del passato recente, i bei vecchi tempi del New Labour e della globalizzazione dal volto umano. E’ la ricetta perfetta per accelerare la crisi economica, sociale e politica. La grande recessione non è la rottura dell’organizzazione che l’Occidente si è dato negli ultimi quarant’anni, ma il risultato di diversi tentativi reazionari di riformulare quell’ordine ereditato al fine di conservare i privilegi delle classi dominanti. Se vogliamo evitare la catastrofe, dobbiamo passare dalla radicalizzazione della normalità alla normalizzazione della rottura, e questo significa accettare il conflitto aperto non solo contro un pugno di vincitori del casino economico globale, ma anche contro quegli aspetti della nostra vita che concorrono alla barbarie capitalista.

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