132124917-d5715b14-6e4d-4b98-9ea8-3d71ada77e80Molti hanno intitolato questa foto “Una ragazzina palestinese in fuga”. A me pare un titolo sbagliato.

In quest’immagine, condivisa da molti social network, una ragazzina palestinese rovista tra i resti della sua casa bombardata a Gaza e recupera con cura i suoi libri stropicciati e impolverati, un piccolo diario, qualche quaderno. Per un momento incrocia lo sguardo di chi la fotografa, poi torna a cercare e va via.

Dunque, ciò che vediamo nella fotografia, se non ci limitiamo solo a guardarla, è la volontà di non farsi tenere in scacco, di ritrovare quello che si temeva di aver perduto, di riprendere il proprio tempo e, con ciò, mettersi nella condizione, di rimpossessarsi della propria vita. Detto diversamente: di ritornare ad essere padroni di sé.

gula2Non so se quest’immagine, come quella più nota di Sharbat Gula la ragazza dodicenne afgana, immortalata in uno degli scatti più famosi della guerra afgana fatto dal fotoreporter americano Steve McCurry nel 1984, avrà la forza di rimanere come simbolo di questa guerra. Avverrà se sapremo andare oltre e non cedere al macabro. In ogni caso a me sembra che se colta in ciò che contiene essa dica molto a noi, abitanti del Mediterraneo di sopra, che da almeno due generazioni non viviamo la guerra in diretta.

In quest’immagine si condensa una dinamica della guerra che noi sappiamo essere una caratteristica strutturale della guerra nei nostri tempi, ma con cui difficilmente siamo in grado di confrontarci.

Abbiamo ancora una memoria della guerra fondata sulle scene forti e drammatiche delle guerre tradizionali dove protagonisti sono gli eserciti, e dove morte significa guardare la massa, talora consistente, dei molti corpi ammassati ai bordi del campo di battaglia, nella trincea. Oppure dei molti morti civili dopo i bombardamenti.

Ma la guerra odierna, ha soprattutto altri significati e mette in moto altre dinamiche. Guerra, oggi, è avere il possesso delle vite degli altri, spesso i disarmati, e costringerli a misurarsi con i tempi, i ritmi, le forme, che i signori della guerra, adottano. E’ così che si tiene in scacco le vite dei civili. Il fine è renderli consapevoli della loro fragilità e dunque non lasciare scampo, non dare modo di riprendere il corso della loro quotidianità.

La sequenza fotografica che abbiamo di fronte, dice esattamente l’opposto: non testimonia della fuga, ma dell’ostinazione. Ciò che mostra non è la paura, ma la dignità di sé. Ciò che noi vediamo non è la guerra, ma l’atto di non sottomettersi alla guerra.

David Bidussa
Responsabile archivi e biblioteca di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli


Consigli di lettura

Il bambino di Varsavia di Frédéric Rousseau

3057149«Chi non ha visto lo sguardo terrorizzato di quel bambino minacciato da un soldato tedesco durante la Seconda Guerra mondiale? Libri e manuali di storia, riviste, corridoi del métro parigino, documentari televisivi, opere d’arte, siti Internet: forse l’immagine di quel ragazzino non è mai stata tanto presente quanto oggi»: l’istantanea che ritrae il piccolo ebreo del ghetto di Varsavia con le mani in alto fa così parte della memoria collettiva da trasformare nel corso del tempo il protagonista in una ‘icona’ della Shoah. Riprodotta spesso e volentieri, divenuta fonte di ispirazione per gli artisti, quella foto è stata anche sottoposta a nuove inquadrature che, a poco a poco, ne hanno fatto un’immagine compassionevole, priva di ogni riferimento ai carnefici. Quella fotografia, come si è saputo nel dopoguerra, era stata scattata dai nazisti stessi per documentare alle SS la repressione del ghetto: l’intento era di fissare nello scatto l’eroismo dei valorosi soldati tedeschi che erano riusciti a domare i ‘banditi’ di quel quartiere. All’inizio all’immagine non è stata prestata troppa attenzione, neanche a Norimberga; solo dagli anni Sessanta in poi ha assunto il valore che ha oggi. Frédéric Rousseau ricostruisce la storia della fotografia dal 1943 ai giorni nostri e s’interroga sul rapporto che abbiamo avuto e abbiamo oggi con quel piccolo messaggero di Varsavia che guardiamo senza più vedere.

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