Non solo storia – Calendario Civile \ #24aprile1921


Scriveva Alex Langer nel 1994 che vivere insieme chiede sia impegno, sia muoversi controcorrente.

Ma soprattutto chiede una visione non utopica ma realistica del tempo presente e del tempo avvenire. È significativo l’esordio:

“La convivenza pluri-etnica, pluri-culturale, pluri-religiosa, pluri-lingue, pluri-nazionale… appartiene dunque, e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione”.

Ci tornerò alla fine.

Un secondo aspetto è importante richiamare: il profilo della riflessione che Alex Langer affida al tema del “vivere insieme” sta dentro un laboratorio che significativamente in quegli stessi anni vede Zygmunt Bauman riflettere su temi analoghi.

Due in particolare: da una parte il processo contraddittorio con cui si produce la lenta disgregazione dei ghetti ebraici nel tempo della Rivoluzione francese; dall’altra la discussione sulla  condizione di straniero tra XIX e XX secolo.

Quei testi compongono uno scaffale di lavoro e definiscono i contorni di un vocabolario per la politica del post ‘900 che prova a dare nuovi contenuti a varie parole spesso inflazionate come: cittadino, comunità, patto, convivenza.

Per questo è utile riprenderli in mano.

Non solo. Il tema della cittadinanza e della possibilità che gruppi umani con culture, lingue, stili di vita intraprendano percorsi di crescita per costruire spazi di cultura comuni sulla base di una domanda di cittadinanza che li veda egualmente protagonisti a pensare e a costruire domani insieme non è solo di questo nostro tempo, ma costituisce una delle questioni a lungo non risolte della costruzione di nuova cittadinanza fin dall’inizio della modernità.

Ma cominciamo dalla fine.

Negli ultimi anni della sua vita, Zygmunt Bauman è tornato molte volte a riflettere sul legame tra paura e odio.

Il precipitato concettuale di quella riflessione è in una monografia del 1993 dal titolo Modernity and Ambivalence (in Italia esce nel 2010 con lo stesso titolo).

“L’ambivalenza, ovvero la possibilità di assegnare un oggetto o un evento a più di una categoria, è un disordine specifico del linguaggio”. È la frase di esordio. Ma dopo poche pagine Bauman affonda il coltello nella questione dell’ambivalenza e scrive: “Ci sono amici e nemici. E ci sono stranieri”.

Qui si gioca tutta la partita. Perché in un tempo che considera le appartenenze specifiche come minacciose dell’integrità del gruppo umano che costituisce la società nazionale la condizione dello straniero diventa allo stesso tempo ineludibile e irrisolvibile.

Ineludibile. Essere parte della realtà nazionale diventa assimilarsi al codice culturale di maggioranza.

Irrisolvibile. Assimilarsi significa: 1) uscire dal proprio gruppo; 2) dichiarare il rifiuto della propria origine; 3) chiedere l’adesione al nuovo gruppo. Quella adesione avverrà con sempre maggior difficoltà perché le prove di fiducia, meglio di «fedeltà» al nuovo gruppo diventeranno, col passare del tempo, sempre più esigenti. Entrare nel gruppo di maggioranza implica rompere i legami, non favorire processi di miglioramento dei membri del gruppo di provenienza.

Scrive Bauman: “Nell’ambito della politica dell’assimilazione, la tolleranza verso gli individui, era indissolubilmente legata all’intolleranza verso le collettività, i loro stili di vita, i loro valori e, soprattutto, il loro potere di legittimare valori. In realtà, la prima era un importante strumento per promuovere con successo la seconda”.

Quel tratto aumenta i fenomeni di intolleranza. Non è accaduto solo nel nostro tempo. Quel percorso è già accidentato nella Francia giacobina all’emancipazione dei neri di Haiti e che poi si chiude contiene in nuce tutti quegli elementi che sono tornati due secoli dopo a riaprire la partita della cittadinanza nell’Europa a fonte delle sfide della globalizzazione.

Se nel 1789 è espresso dal vocabolario politico con cui si definisce la discussione intorno alla questione dell’abolizione della schiavitù e della cittadinanza politica dei neri in cui prende forma un’uguaglianza formale senza inclusione. Ovvero senza attuazione dell’eguaglianza.

Ma quel processo precisa Bauman non riguarda solo le maggioranze. Produce e favorisce identici processi di chiusura e di esito fondamentalista o “sovranista” all’interno delle minoranze, che innalzando muri sfidano quei membri della loro comunità che avrebbero l’intenzione di produrre e favorire un processo di ibridazione, a confermare l’adesione ideologizzata al proprio gruppo di appartenenza, di origine, sia esso per nascita o per tradizione.

In entrambi i casi minoranze e maggioranze anziché intraprendere un processo partecipato volto alla definizione di un nuovo percorso identitario, rafforzano ciascuno gli elementi di reciproca esclusione, restringono, spesso fino a chiudere, qualsiasi pratica di confronto e di riflessione, comunque interrompono caso mai avessero avviato, qualsiasi pratica volta alla inclusione e alla coabitazione.

In quella “terra di nessuno” che chiama al confronto rimangono sempre meno persone, considerate da tutti gruppi in conflitto “traditori”, “inaffidabili”.

Qui torna essenziale riprender in mano le parole e il laboratorio di riflessione proposto da Langer tra anni ’80 e anni ’90 e soprattutto le proposte contenute nei Dieci punti per l’arte di vivere insieme.

Su tre modalità e un corollario che costituiscono una parte significativa di quella proposta  laboratorio. Ovvero di riflessione «per fare». E non solo per limitarsi «a dire».

  1. La convivenza né una scelta e non è il risultato di una predica, ma di valorizzazione di esperienze e di progetti positivi;
  2. Conoscersi, meglio “praticarsi” non è la conseguenza di una coabitazione senza toccarsi o senza contaminarsi. Un proposito che è l’eco delle riflessioni che in quegli stessi anni, negli Stati Uniti viene proponendo l’antropologo James Clifford nel suo I frutti puri impazziscono.
  3. Conoscersi non è un fine “etico”, è l’occasione per fare cose, non solo insieme, ma per migliorare la qualità della vita, la propria e quella del territorio che si abita. Per cui salvaguardare il territorio non basta consentire a ciascun gruppo di perpetuarsi nel tempo. Quella continuità nella storia è possibile se si ha cura del territorio, dei luoghi e delle forme di sociabilità.

Da cui il corollario:

la centralità e l’essenzialità dei “costruttori di ponti” ovvero di attori che si impegnino “testa bassa” e “schiena dritta” a non demordere. Quelle figure sono essenziali nel momento in cui la società si costruisce come “vestito di Arlecchino”, definisce “bolle” di appartenenza, limita i contatti nella convinzione di “salvarsi”.

Per riprendere le parole di Bauman, in dialogo con James Clifford e in sintonia con le preoccupazioni di Alex Langer soprattutto all’indomani della entrata in vigore delle “gabbie etniche”.

“Una collettività che pretende di essere la comunità incarnata, il sogno realizzato, e che in nome di tutto il bene che si presume possa dispensare esige una lealtà incondizionata e considera qualsiasi altro atteggiamento un imperdonabile atto di tradimento, La ‘comunità realmente esistente’, qualora ce ne trovassimo partecipi, reclamerebbe ubbidienza assoluta in cambio dei servizi erogati o che promette di erogare. Desideri la sicurezza? Cedi la tua libertà, o quanto meno buona parte di essa. Desideri tranquillità? Non fidarti di nessuno al di fuori della comunità. Desideri la reciproca comprensione? Non parlare con gli estranei e non usare lingue straniere. Desideri provare questa spiacevole sensazione di intimo ambiente familiare? Istalla un allarme alla porta e un sistema di telecamere nel giardino. Desideri l’incolumità? Non far entrare gli estranei ed evita a tua volta comportamenti strani e pensieri bizzarri. Desideri calore? Non avvicinarti alle finestre e non osare mai aprirne una. Il problema è che se si segue questo consiglio e si tengono le finestre chiuse, l’aria all’interno diventa ben presto stantia e alla fine irrespirabile.”[Voglia di comunità, p. 6].

La costruzione di un percorso di coabitazione, di scambio, ma anche di reciproca «curiosità» è possibile solo se quei «costruttori di ponti» non demordono e, come molte altre volte nella storia, riprendono a tessere la tela del confronto, dello scambio. Caparbiamente. Appunto a “testa bassa” e “schiena dritta”.

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