La ricerca scientifica e l’innovazione e la conseguente comunicazione di dati e risultati sono tematiche intrinseche alla natura delle università e che la pandemia ha reso ancora più centrali: non solo l’importanza di utilizzare messaggi chiari, efficaci, intelligibili al pubblico e certificati sempre dai dati, ma anche maggiormente coordinati e meno conflittuali, per evitare di generare confusione e diffidenza. E la fonte stessa diventa garanzia dell’affidabilità e della serietà delle informazioni, soprattutto su temi scientifici che hanno un impatto sulla vita delle persone. La conoscenza, la competenza e la comunicazione mai come ora dovrebbero essere sempre indissolubilmente legate, a tutti i livelli. In questo contesto l’Università è appunto centrale: il suo ruolo infatti si è arricchito, passando da produttore e diffusore di conoscenza ed educazione ad attore chiave nella ricerca e, di conseguenza, nel trasferimento tecnologico, giocando un ruolo importante nello sviluppo del territorio.
Valorizzare la ricerca, che ci aspettiamo sempre guidata da principi etici e adeguatamente finanziata – una auspicabile priorità per i Governi – è sicuramente il primo passo per stimolare la produzione e diffusione di conoscenza a tutti i livelli. Tra pari, cosi detti peer-to-peer, perché è dal confronto che emergono nuove idee, ma anche direttamente con il pubblico per condividere informazioni utili a tutta la popolazione. Tutto ciò ha ulteriormente sviluppato il dibattito sulla accessibilità e condivisione dei dati scientifici della ricerca, la politica cioè dell’open access con l’obiettivo di rendere il modo di fare ricerca più aperto, collaborativo e in rete. Sono nate diverse iniziative europee in questo senso, come quelle del SER – Spazio Europeo per la Ricerca – volte a migliorare l’accesso a informazioni scientifiche aperte, gratuite e riutilizzabili. E nel luglio 2020 si è costituito anche l’European Open Science Cloud (EOSC) in cui uno dei 4 soci fondatori è il GARR italiano (Gruppo armonizzazione Reti Ricerca).
L’apertura ai dati della ricerca ha in generale il potenziale non solo di migliorare la ricerca scientifica e di coinvolgere la società, ma anche di contribuire in modo significativo al trasferimento tecnologico e alla crescita attraverso l’innovazione. L’Open Access può avere quindi degli effetti positivi sulla ricerca scientifica, migliorando la circolazione della conoscenza (gli articoli accessibili liberamente sono citati in media tra il 26% e il 64% in più) o favorendo la ricerca interdisciplinare essenziale per affrontare le grandi sfide del nostro tempo. A questo si contrappone per certi aspetti la politica della protezione dei dati personali (GDPR): entrambi i regolamenti mirano ad una trasparente condivisione dei dati ma la domanda – ancora senza una chiara e definitiva risposta – è proprio come si possono conciliare i rispettivi obiettivi nell’interesse principale della salute dei cittadini.
E la valutazione stessa della ricerca e dei suoi prodotti è al centro di un importante dibattito partendo dall’assunto che il modo con il quale si valutano le persone ha una netta influenza sui comportamenti delle stesse. E’ nato quindi un movimento – detto della ricerca responsabile – con l’obiettivo di definire standards e metodi di ranking delle attività di ricerca universitari più ampi e meno rigidamente legati a indici bibliometrici (Declaration on Research Assessment – DORA). L’ interesse che sta raccogliendo l’iniziativa certifica l’importanza della problematica.
Se da un lato garantire un accesso libero a dati e informazioni scientifiche è fondamentale, dall’altro va incentivato il dialogo del mondo accademico con quello industriale. Il ruolo dei parchi scientifici tecnologici e la loro relazione con sistemi regionali dell’innovazione e con le stesse università sta ricevendo grande attenzione specie su alcune tematiche quali la condivisione delle informazioni scientifiche, i canali di comunicazione, gli sviluppi commerciali e la creazione di start up di successo. In questo modo le scoperte scientifiche potrebbe avere una più veloce e concreta applicazione negli ambiti più rilevanti della vita quotidiana. Questo è un aspetto su cui l’Italia per prima può sicuramente investire, considerando da un lato l’elevata produttività dei nostri ricercatori in rapporto a quella di altri paesi anche molto sviluppati quali Usa, Cina, Giappone, Germania e Francia, ma registrando dall’altro una capacità brevettuale ancora inferiore rispetto a tutti i paesi citati.
Anche qui le Università possano avere un ruolo primario, stimolando la contaminazione e l’integrazione tra i saperi, specie nell’ambito delle scienze della vita. Vanno promossi nuovi dottorati di ricerca che affrontino le grandi sfide della società e che abbiano sbocchi anche verso attività non accademiche. Occorre, inoltre, sempre più finanziare e valorizzare progetti fortemente ancorati a risultati applicabili, “pratici” e misurabili, che riescano a inglobare competenze diverse. Va in questa direzione il corso di laurea MEDTEC, che Humanitas University ha sviluppato insieme al Politecnico di Milano, che vuole potenziare le conoscenze mediche con quelle ingegneristiche per poter guidare l’innovazione della medicina e, dopo la laurea, valutare un’occupazione in ambito clinico, ma anche nella ricerca o direttamente nell’industria.