Come usciremo da questa guerra?
Vorrei proporre brevemente alcune questioni che, credo, ci riguarderanno, nelle prossime settimane, soprattutto nel momento in cui le armi potranno finalmente tacere. Si porrà allora il problema di quale politica sarà presente sul terreno. Più precisamente quali saranno i termini politici del confronto, al netto delle questioni territoriali.
Ne indico tre.
Il primo: con le armi consegnate a Kiev noi europei siamo già in guerra con Mosca. Lo scrive Domenico Quirico – uno che la guerra negli ultimi anni l’ha vista per davvero – su “La Stampa” di giovedì 2 marzo. Non so se abbia completamente ragione, ma è un termine della questione che non possiamo eludere. Più in generale dietro cela la questione: l’Europa ha una politica?
Non ne sono del tutto sicuro. Paradossalmente non ce l’ha nei suoi leader attuali, perché troppo incerti nelle politiche da soddisfare. Ovvero: quale sviluppo energetico? Quali economie pensare per domani? Quale idea di futuro disegnare? Ma non ce l’hanno neppure i leader della alle destre sovraniste che non sanno nella loro incertezza con chi stare, perché da troppo tempo hanno strizzato l’occhio, esplicitamente, pubblicamente e platealmente, al Signore del Cremlino. Forse la scena più imbarazzante di questi giorni è quella di Marine Le Pen che si sbarazza di centinaia di migliaia di volantini che la ritraggono sorridente con Vladimir Putin. Non è che i signori delle destre in Italia stiano molto meglio.
La seconda questione riguarda se abbiamo o meno un’idea di che cosa significhi e del peso che ha, al netto dei dissensi interni, delle prese di posizioni contro la guerra, la forza e il fondamento del consenso di cui gode Vladimir Putin all’interno del suo paese.
Questo implica raccontarsi non solo la tirannia o la forza del dispotismo, ma anche una conseguenza delle politiche e delle scelte che noi, di qua nell’Europa, abbiamo fatto a partire dagli anni Novantanei confronti di un paese che vedeva il crollo della sua dimensione imperiale e che tuttavia non cessava di raccontarsi come grande impero, che soffriva della sua condizione di “resa” allo straniero e declinava il suo orgoglio ferito in rancore, e dunque traduceva quella condizione in “riscatto” feroce, violento. Qualcuno ha memoria di come, supponendo che la Russia di Putin fosse ormai solo un paese in declino, noi tutti abbiamo risposto alle richieste di aiuto che Putin ha lanciato in occasione dell’affondamento del sommergibile nucleare K-141 Kursk? C’era l’orgoglio ferito di un paese, il senso di riscatto, ma anche l’opportunità, forse, di pensare un diverso rapporto di buon vicinato. Quella strada abbiamo scelto di non percorrerla, per certi aspetti nemmeno di provarla, convinti che il problema era solo aspettare “il crollo”. Non è andata così.
La terza questione riguarda come affrontare la doppia natura di una situazione politica complicata. Da una parte abbiamo segmenti di società civile che optano per opzione di democrazia e che si dichiarano amici dell’Occidente, dall’altra un governo autoritario, che racconta di sé di essere la vittima di un Occidente che lo vuole “prigioniero”, meglio “servo”.
A Mosca non c’è democrazia e diritto di opinione. Abbiamo un innalzamento della violenza, la persecuzione degli oppositori e la loro eliminazione (a cominciare da Anna Politkovskaja).
Ma chiediamoci, tra i nemici di Putin e della Russia, nei sistemi politici al confine russo si propongono modelli limpidamente democratici? Il loro neonazionalismo ha origini diverse o opposte rispetto a quello in auge a Mosca?
E allora se siamo disposti a tacere delle molte violazioni della libertà a est dell’Elba fino al Baltico, non sarebbe anche il caso di avere una politica pragmatica e meno di principio anche verso Mosca? O almeno di contrattare? O la nostra intransigenza verso l’autocrazia di Putin si accompagna a uno sguardo più indulgente verso nuovi laboratori di sovranismo illiberale che sono parte di “casa nostra”?
Puntare alla dissoluzione non è una soluzione. Forse, dopo 30 anni, sarebbe il caso di affrontare con razionalità un’ipotesi alternativa. Perché, per dirla con Dieter Groh, la Russia è anche uno specchio per l’autocoscienza d’Europa.
Foto di copertina di Taras Gren.