a cura di Jacopo Perazzoli,
articolo di approfondimento che riassume i temi e i risultati del workshop Bad Godesberg, quando siamo diventati riformisti, di Agenda Open Lab
Un quadro d’azione diverso: società, economia e partito, tra ieri e oggi
Approvato nel novembre del 1959 dalla Socialdemocrazia tedesca, il programma di Bad Godesberg rappresenta ancora oggi un documento importante nella lunga vicenda della socialdemocrazia europea. Come emerge da un volume di Fondazione Feltrinelli pubblicato in occasione del sessantesimo anniversario della sua applicazione, lo è probabilmente per due ragioni principali: prima di tutto perché, muovendo da un’approfondita analisi della realtà, quel documento si proponeva comunque di imbrigliare il capitalismo, così da limitarne gli effetti più nefasti; in secondo luogo perché non rinunciava affatto ad immaginare un futuro diverso, non per forza limitato alla sola conservazione, o al massimo miglioramento di piccolo cabotaggio, dello status quo.
Per evitare di realizzare la più classica operazione da “nostalgia del passato” denunciata qualche anno fa da Zygmunt Bauman in un suo libro particolarmente ficcante, nel 2019 una prima operazione utile per provare a immaginare una nuova proposta politica socialdemocratica coincide con l’individuazione del perimetro d’azione, partendo peraltro da una constatazione preliminare. Mentre nel trentennio glorioso non vi erano dubbi sull’ascesa del settore industriale, oggi è la deindustrializzazione, con i suoi impatti in termini di frammentazione sociale, a segnare il panorama del continente europeo. La finestra di opportunità, apertasi dopo la Seconda guerra mondiale, iniziò a chiudersi nel 1971, quando gli Usa decisero per il superamento del sistema di Bretton Woods, che fino a quel momento era riuscito a regolare le relazioni economiche transatlantiche.
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Come spiega Matteo Jessoula, le trasformazioni del capitalismo hanno sfidato l’approccio delle socialdemocrazie anzitutto sul terreno delle politiche sociali.
A partire dunque dalla fine degli anni Settanta, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, il nuovo corso si manifestò con le prime ondate di liberalizzazioni. Secondo Mario Ricciardi, mutando il quadro economico di fondo, anche le tendenze ideologiche subirono delle trasformazioni, con un evidente impatto sulle socialdemocrazie. Nel contesto del Cold-War liberalism, il neoliberalismo, un panorama di idee in circolazione già dagli anni Sessanta nel Regno Unito, in alcuni think-thank e tra gli esponenti dei tories più conservatori, riuscì ad avere sempre più spazio e ad influenzare in misura sempre maggiore il dibattito politico. In linea con la riflessione, tra gli altri di Robert Nozick, la caratteristica principale del neoliberalismo era il superamento dei legami sociali, elemento centrale del programma di Bad Godesberg, eccezion fatta di quelli volontari. Le obbligazioni tra generazioni di cui parlavano tanti conservatori “classici”, Edmund Burke su tutti, venivano dunque meno, così come sparivano i rapporti di solidarietà.
Nel 1987 Margaret Thatcher aveva spiegato che “la vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie”. Nella visione neoliberalista sono gli individui il focus centrale: per Ricciardi, infatti, la società equivaleva al bargain tra gli individui, dove il vincolo era costituito da un perimetro piuttosto stretto e molto rigoroso dei diritti di proprietà, diritti di proprietà sul proprio corpo in prima misura, quindi sul lavoro e su tutto ciò che veniva acquisito tramite il lavoro.
Se così sul piano più strettamente ideologico, anche sul piano politico la svolta si verificò tra gli anni Settanta ed Ottanta. A detta di Andrea Panaccione, esemplificativa in questo senso fu la rotta seguita dalla commissione europea guidata da Jacques Delors, incapace di contenere gli effetti più nefasti dell’economia. D’altro canto, il neoliberalismo diventò egemone proprio con l’arrivo degli anni Ottanta, riuscendo così ad orientare il dibattito e a fissare l’agenda anche della socialdemocrazia. Dopo questa svolta, i partiti socialisti e socialdemocratici non riuscirono più ad immaginare un modello di società alternativo, come dimostrato dalle esperienze di governo degli anni Novanta e dei primi anni Duemila.
Questi veri e propri cambi di paradigma erano legati ai mutamenti avvenuti all’interno del quadro economico, che per la socialdemocrazia ha storicamente rappresentato la sfera per antonomasia con cui rapportarsi. Se il programma di Bad Godesberg, secondo quanto spiegato da Michele Di Donato, dimostrava l’intenzione della Spd di governare e di riformare il capitalismo, così come nel dare un ruolo da protagonista allo Stato nel campo economico (“concorrenza quanto possibile, pianificazione quanto necessario”), il programma approvato dalla Spd nel 2007 durante il congresso di Amburgo presentava una prospettiva ben differente: alla politica spettava riconoscere il ruolo propulsivo della globalizzazione. I due approcci sono sintomatici delle trasformazioni intercorse nel quadro economico globale: mentre il programma di Bad Godesberg dava centralità alle risorse e agli strumenti dello stato nazionale, all’interno del quale i socialdemocratici riuscirono ad affermarsi, oggi la globalizzazione delinea invece uno scenario molto diverso in Europa, in cui gli Stati sono visti come al servizio dell’economia. Ne è conseguito, per richiamare la tesi convincente di un libro di Giuseppe Berta, che la socialdemocrazia ha smarrito la sua capacità di proporsi come ostacolo agli effetti più distruttivi del capitalismo in una fase in cui, peraltro, gli effetti iniziavano a presentarsi con forza, lasciando sul campo delle conseguenze estremamente negative in termini di deindustrializzazione e di frammentazione sociale.
Oltre a profondi impatti sulla società e sull’economia, la fine dell’età dell’oro ha ovviamente avuto lunghe influenze anche sulla forma partito, un’altra delle voci fondamentali del programma di Bad Godesberg. Nell’ottica di Giovanni Scirocco, lo sviluppo del benessere e l’inizio del rallentamento dell’economia ebbe delle ricadute negative sulle capacità propositive dei partiti socialisti. Anche se per Edgard Morin la dimensione del conflitto iniziò ad essere attenuata già a partire dalla fine degli anni Sessanta proprio a causa del nuovo benessere diffuso, la storia ci insegna che furono i socialisti ad iniziare ad uscire, in maniera lenta e progressiva, dai contesti conflittuali, iniziando a proporsi sulla scena politica come forze politiche di fatto tutrici dello status quo o, al massimo, di piccoli miglioramenti delimitati.
In questo senso, sarebbe scorretto far risalire le difficoltà dei partiti socialisti attuali alla caratterizzazione odierna dell’economia e della società: per Scirocco, le difficoltà si palesarono quando i partiti socialisti misero da parte la progettualità di lungo periodo, abbracciando di fatto politiche di corto respiro. Avendo abdicato a questa funzione ed essendosi proposti sulla scena come tutori dello status quo, i socialisti diventarono così le prime vittime della crisi e non solo perché ne subirono le conseguenze economiche.
La centralità del tema del conflitto
Alla luce del quadro attuale, un quadro disarticolato sul piano economico e sociale rispetto ai trenta gloriosi, il conflitto sta tornando ad avere una nuova centralità. Per i socialisti, che comunque provengono da Marx e Proudhon, il tema e la pratica del conflitto per porre rimedio alle sfide odierne non può rappresentare un problema, come riconosciuto da Nicola Del Corno. Pur in assenza di una soggettività politica capace di rifare propria la dimensione del conflitto, un aspetto rilevato da Maria Grazia Meriggi, dopo gli anni del compromesso, della mediazione e della “terza via”, per riassumere quella dimensione, la socialdemocrazia deve anzitutto sciogliere il dilemma legato alla metodologia del conflitto da sostenere. Un passaggio propedeutico dovrebbe comunque verificarsi anche nel semplice riconoscimento del conflitto come istanza cui non rinunciare, ma anzi da riattivare. In questo senso, secondo Scirocco, i bonus, che non hanno l’obiettivo di porre rimedio alle diseguaglianze sempre più evidenti nelle società attuali, sono da considerare l’espressione massima della negazione del conflitto. O meglio, i bonus, lungi dall’avere effetti prolungati, alla fine possono essere equiparati a piccoli tentativi di rendere meno complicata una determinata situazione, anche con il fine non secondario di ridurre la conflittualità sociale: è certamente così per i bonus finalizzati a ridurre le spese più gravose ed impattanti che segnano la quotidianità (per esempio il bonus energia), ma forse anche per i famosi 80 euro.
Ma se i socialisti, spiega Ricciardi, intendono effettivamente mettere al centro del loro agire l’abbattimento delle diseguaglianze la logica dei bonus, che di fatto cristallizza le diseguaglianze, deve lasciare spazio alla logica del conflitto, capendo che un passaggio fondamentale risiede nel ritornare nei luoghi in cui i conflitti esplodono, anche con forza. Farlo non significherebbe abbracciare le istanze del populismo, bensì provare a riconoscere i problemi sul campo e a dargli voce e rappresentanza politica.
In questo senso, il conflitto, per Alessandro Coppola, potrebbe riguardare, in una città come Milano così come in altri contesti urbani europei oppure negli Stati Uniti, le politiche abitative: anziché timori reverenziali nei confronti di un qualsivoglia intervento sulla proprietà, i partiti socialdemocratici dovrebbero mettere al centro questo tipo di problematica, ovviamente partendo da un’analisi delle attuali condizioni della proprietà, che sono estremamente diversificate e variegate.
Le linee di una socialdemocrazia radicale per tempi radicali
Alla luce del quadro attuale e delle sue peculiarità che lo differenziano rispetto ai trenta gloriosi, quali temi possono costituire i nuovi assi attorno cui costruire una rinnovata agenda socialdemocratica? Innanzitutto, per la socialdemocrazia una premessa all’azione vera e propria deve passare dal riconnettersi con le istanze e con i bisogni del mondo del lavoro che, come precisato da Fabio Ferrarini, oggi è frammentato e che presenta sfaccettature e tensioni ben diverse rispetto a quelle che segnavano la quotidianità della Spd e delle altre forze socialdemocratiche nel corso del secondo dopoguerra. Ciò è ancora più vero se si considerano gli impatti della tecnologia anche sui lavori avanzati, il settore bancario su tutti.
Muovendo da questo scenario profondamente rinnovato, anche in coerenza con l’approccio empirico forgiato in occasione della formulazione del programma di Bad Godesberg, la socialdemocrazia europea deve sforzarsi di orientare la sua proposta programmatica sulla base delle priorità e delle emergenze attuali.
Secondo Matteo Jessoula, si tratta dunque di muovere da due urgenze. In primo luogo, la condizione di povertà che segna un terzo per cento dei minori. In Italia, dove la quota di minori a rischio di povertà o esclusione sociale è pari al 30,6%, il dato è ben peggiore rispetto alla media europea del 24%, e di altri paesi, come il il 22,9% della Francia, il 21,9% del Portogallo, il 17,3% della Germania, il 15,2% dell’Olanda. Addirittura, nella fascia d’età 0-5 anni solo Bulgaria (31,6%) e Romania (30,8%) hanno tassi appena superiori a quelli dell’Italia (30,6%). Ciò dimostra, in filigrana, l’inefficacia delle misure progettate negli ultimi dieci anni a sostegno delle famiglie più esposte. La seconda corrisponde ai servizi per la prima infanzia, un settore in cui l’Italia è in forte ritardo rispetto agli altri paesi europei: la spesa pubblica è pari allo 0,2% del Pil, mentre la media europea è dello 0,8%. Nondimeno, l’accesso ai servizi della prima infanzia in Italia sia tra i meno inclusivi in Europa: solo il 18 % dei bambini provenienti da famiglie con bassi livelli di reddito accede ai servizi socio-educativi, contro il 32% di Spagna e Olanda e il 50% di Svezia e Danimarca.
Per invertire questo trend, nell’ottica di Jessoula basterebbe leggere integralmente le direttive dell’Unione europea, che non si concentrano soltanto sul contenimento dei costi, ma anche sulla riorganizzazione della spesa in senso maggiormente redistributivo sia in termini di servizi che di ampliamento e miglioramento del welfare. L’agenda socialdemocratica deve accogliere questa prospettiva, anche in considerazione di una ristrutturazione organica sul fronte delle prestazioni da fornire. Per renderla sostenibile e dunque effettivamente realizzabile, suggerisce ancora Matteo Jessoula, i partiti d’ispirazione socialdemocratica dovrebbero attenersi con maggiore attenzione alle indicazioni della Banca Mondiale: in luogo dei contributi sociali, l’attenzione deve essere posta sul necessario affinamento dei meccanismi di fiscalità generale.
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Nell’Europa di oggi, secondo Matteo Jessoula, i margini per nuove politiche sociali di stampo socialdemocratico sono costretti ma ampi.
Un’altra via da percorrere per restituire protagonismo politico alla socialdemocrazia europea nei tempi odierni deve passare dal contrasto di alcuni propositi economici universalmente accettati. A detta di Paolo Borioni, infatti, la riforma del capitalismo deve essere riposta al centro del discorso politico socialdemocratico, richiamandosi così alla classica lezione di Eduard Bernstein. Un esempio può essere il Green New Deal messo a punto dalla Confederazione dei Sindacati Tedeschi (DGB) nel 2013, la cui difficoltà nell’essere realizzato è sintomatica delle complicazioni incontrate dalla socialdemocrazia nel realizzare progetti di riforma legati alla mediazione del conflitto: il compromesso tra capitale e lavoro, così come quello tra esportazione ed importazione, deve essere riattivato alla luce delle esigenze anzitutto interne. Così facendo, verrebbero riorganizzati politicamente i diversi ceti sociali interessati da questi progetti di riforma. A ben vedere, sarebbe un modo di fare profitto diverso dal fare sfruttamento, ma finalizzato a riequilibrare le società sul fronte interno, senza così essere sottoposte ai meccanismi anche distruttivi del capitalismo attuale.
Un’altra soluzione può passare dal colmare i due vuoti invece presenti nel programma di Bad Godesberg, come sostenuto da Di Donato. Prima di tutto la stabilità monetaria, che genera tante preoccupazioni in Europa. In secondo luogo, il controllo dei flussi di capitali. Entrambi tutelati nel ‘59 dal sistema di Bretton Woods ed entrambi invece oggetto di discussione e di intervento politico nel mondo diretto di oggi. Il primato della politica sull’economia passa giocoforza dalla presa in carico di questi due aspetti, che non possono essere sottovalutati dalle socialdemocrazie. Di conseguenza, le socialdemocrazie non possono limitarsi a proporre un cosmopolitismo liberale alla Macron. Paradossalmente, una delle assenze principali in questa epoca di globalizzazione è quella di un discorso internazionalista proveniente dalle sinistre europee: una sfida sta proprio nella riattivazione di una pratica internazionalista, laddove per internazionalismo si intende una connessione politica e sentimentale non episodica, ma strutturata tra le vicende nazionali e quelle internazionali.
L’obiettivo deve essere quello di costruire una valida alternativa tra adesione acritica alle istituzioni internazionali esistenti, comprese quelle europee, e ripiegamento nazionale e nazionalista.
In sostanza, fare i conti con le urgenze delineate e mettere in campo le soluzioni ipotizzate consentirebbe, chiosa Scirocco richiamandosi alla lezione di Carlo Rosselli, alla socialdemocrazia di ragionare in termini di arcaismo, ossia libertà dal bisogno, e di utopismo, ossia libertà di immaginare qualcosa.