Università degli Studi di Milano-Bicocca

La Colombia è nota, a osservatori poco attenti o superficiali, solo per essere il Paese delle morti violente in ragione del narcotraffico, da un lato e, dall’altro, del conflitto armato che si è protratto per decenni, senza tregue significative, fino a quando, nel 2016 fu firmato definitivamente quello che è conosciuto come l’Accordo di pace.

Ma la Colombia è anche la resilienza del suo popolo, che ha sempre saputo organizzare, individualmente e collettivamente, forme di resistenza sociale, politica e, prima ancora, esistenziale.

Il conflitto armato che ha attraversato il paese per oltre cinquant’anni è assolutamente peculiare: per valutarne la portata, il grado di atrocità e di violenza basti pensare che nel solo periodo compreso tra il 1958 e il 2012 sono state registrate più di 8.000.000 di vittime, di cui circa 270.000 morti, 47.000 desaparecidos, 10.250 vittime di tortura, 36.000 sequestrati, 24.550 vittime di violenza sessuale e più di 7.200.000 di sfollati. Una guerra civile che sotto varie forme è durata per tutta la storia contemporanea della Colombia, e dovuta come quasi sempre accade, all’enorme disparità sociale ed economica fra la classe dirigente e il suo popolo.

Le prime cellule guerrigliere nascono negli anni Cinquanta del secolo scorso, durante un periodo storico denominato La Violencia, e nascono in prima istanza per resistere alla violenza partitica e politica.

Nel 1956 venne sottoscritto un patto tra i due partiti tradizionali, i Liberali e i Conservatori, noto come Frente Nacional, che resse fino al 1974. L’accordo tra i due partiti prevedeva un’alternanza al potere tesa a escludere tutte le altre forze politiche portatrici di nuove rivendicazioni.

Molte di queste rivendicazioni arrivavano proprio da quelle piccole cellule guerrigliere sopravvissute negli anni Cinquanta, che si evolsero fino a divenire di fatto un vero e proprio Stato nello Stato, le Republicas Independientes de Marquetalia. Dopo il loro smantellamento nacquero le FARC, in seguito ridenominate FARC-EP, le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejercito del Pueblo. Nel 1964, anno della loro fondazione, a comandarle era Manuel Marulanda. Di lui si è detto tutto e il contrario di tutto. I media e i servizi segreti colombiani hanno per esempio più volte confermato la notizia che Manuel Marulanda aveva viaggiato a Cuba, in Unione Sovietica, in Libia e in altri Paesi per stringere alleanze e per concludere affari economici. Ma lui ha sempre smentito sostenendo che il posto migliore per studiare, per mettere a punto tattiche e strategie e per riposare era la selva. “Io non sono un uomo d’affari, non viaggio, io sono un combattente, un uomo di lotta” affermò più di una volta.

Ma per che cosa combattono le FARC? Combattono per l’uguaglianza e per la giustizia sociale, per la presenza effettiva dello Stato nelle zone più lontane dai centri abitati, per la protezione dei diritti umani della popolazione. Chiedono la restituzione della terra espropriata ai campesinos, la promozione dello studio e l’estensione del sistema sanitario pubblico gratuito.

Non posso qui addentrarmi nel racconto di come la lotta armata e la sua repressione divennero la cifra di quegli anni della storia colombiana. Basterà ricordare che il conflitto armato perdurò nel corso dei decenni fino a incontrare vari tentativi di avviare trattative di pace, tutti miseramente falliti, fino addirittura ad arrivare, nel 1999, a un accordo bilaterale con gli Stati Uniti – conosciuto come “Plan Colombia” – finalizzato a incrementare la lotta contro il narcotraffico e a favorire lo sviluppo economico e la smobilitazione, il disarmo e la reintegrazione dei terroristi nella società civile.

In un modo o in un altro, per decenni la Colombia incontra drammaticamente le violenze collettive. Sequestri, omicidi, morti violente di cui rimasero vittime guerriglieri di tutte le formazioni, membri delle forze armate, esponenti politici di spicco, fino al clamoroso sequestro, da parte delle FARC-EP, della candidata alla Presidenza Ingrid Betancourt.

Ma in che modo, dunque, i colombiani hanno immaginato la loro road map verso la convivenza pacifica?

La pace, i buoni accordi, la convivenza e poi ancora la concordia tra gruppi di una stessa popolazione che per decenni si sono scontrati violentemente e senza tregue significative non può essere qualcosa che si ottiene con un colpo di bacchetta magica. Lo sappiamo tutti. E infatti il cammino verso la convivenza si è subito complicato dopo il “no” all’Accordo di Pace, decretato dal popolo colombiano attraverso un referendum che si tenne alla fine del 2016. Il referendum lo aveva voluto il Presidente Santos per legittimare in modo democratico quanto avvenuto all’Avana. L’amministrazione Santos reagì subito, e nel giro di poche settimane giunse a un’altra versione dell’Accordo, che il Congresso ha poi adottato.

La risposta della Colombia è stata quella di creare un “Sistema integrato di Verità, Giustizia, Riparazione e Non Ripetizione” che si basa essenzialmente sul rifiuto della crudeltà e della vendetta violenta per ricomporre i dissidi che dilaniavano la società da più di cinquant’anni. Il Sistema include al suo interno una Commissione per la Verità, la Giurisdizione speciale per la pace e l’Ente per la ricerca dei dispersi, ciascuno dotato di compiti specifici.

Un percorso di Giustizia riparativa, che permette alle persone coinvolte di prendere parte a un cammino di riconoscimento reciproco, nel corso del quale tutti i soggetti lavorano per restituire dignità ai vissuti e alle narrazioni di ciascuno, come premessa per fondare o ri-fondare la capacità di progettare e impegnarsi in un’azione che ripara tramite azioni positive, il che conferisce a questi gesti una valenza più ampia del mero risarcimento. La riparazione va intesa come un’attivazione che assume l’irreparabilità del male commesso (di per sé ineliminabile) e rilancia, al contempo, la possibilità di progettare un agire responsabile per il futuro, progettando azioni che possano lanciare un ponte di convivenza fra le persone, per ricostruire il tessuto sociale di una società sia a livello individuale che comunitario.

Perché per essere “riparate”, queste sensibilità necessitano di spazi e tempi rituali idonei a generare una rinnovata “voglia di comunità”, per dirla con le parole di Zygmunt Bauman.

Altrimenti quel drammatico “Perché, perché io?” che ogni vittima urla o desidera urlare al cospetto dei suoi perpetratori o, ancora più spesso: “Nulla è stato più come prima” continueranno a riecheggiare. E poi l’angoscia, sempre da parte delle vittime, che tutto si risolva in una bolla di sapone, che l’impunità avrà ancora una volta la meglio e che la pace resti un sogno.

Attualmente, in Colombia, questo rischio è concreto. Troppi, per i motivi più svariati, i nemici della pacificazione. Per contro, un fatto importante, impensabile è già avvenuto. Il 14 settembre del 2020 otto ex comandanti delle FARC-EP hanno chiesto pubblicamente perdono per aver usato, durante il conflitto, l’arma del sequestro di persona. È poco? È tanto?

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