Uno dei fatti politici più importanti degli ultimi decenni, in tutto l’Occidente, è la continua rappresentazione delle classi popolari come base sociale della destra. A costruire questa rappresentazione si esercitano media, politici, analisti e studiosi. È un coro, e un coro è sempre il segnale di una volontà egemonica. Si prende un episodio specifico (per esempio, per citare un episodio recente, quello avvenuto nella periferia romana di Torre Maura) lo si decontestualizza, lo si generalizza, e si afferma la sentenza: “la sinistra è elitaria, il popolo è di destra, la destra è popolare”.
Questa rappresentazione è in realtà segnata da tre paradossi.
Primo. Negli ultimi decenni è decresciuta, anche se non scomparsa, la capacità dei settori popolari di sollevare rivendicazioni e rappresentazioni della società autonome e coerenti. Tuttavia, quando questa capacità si manifesta (per esempio nei conflitti sociali), viene oscurata o descritta come violenta, corporativa, politicamente e culturalmente analfabeta, da parte degli stessi media che ora denunciano il divorzio tra sinistra e popolo.
Secondo paradosso. La voce delle classi popolari, quando si manifesta, viene oscurata o distorta, abbiamo detto. Nello stesso tempo, i fenomeni politici più importanti di questo tempo vengono attribuiti alle classi popolari. La Brexit, la vittoria di Trump, la crescita degli estremismi di destra, le vittorie di 5 Stelle e Lega, l’intera ‘ondata populista’ europea (di destra, di sinistra o degli agnostici): tutto questo viene attribuito alle periferie, “agli operai”, agli “sconfitti della globalizzazione”. Le classi popolari si manifestano così nella rappresentazione dei media come fantasma, come entità invisibile che produce catastrofi politiche.
Terzo. È in atto una competizione a chi ripete più volte quanto la sinistra sia lontana dal popolo, dalle sue esigenze e dalle sue rappresentazioni della realtà, e quanto invece la destra sia in grado di interpretarle (da ultimo hanno insistito su questo punto i libri di Federico Rampini, Massimo Franchi e Luca Ricolfi). Naturalmente, si intende in questo caso con ‘sinistra’ quella dei partiti socialisti, della difesa acritica della globalizzazione e dell’assunzione dell’austerità a orizzonte unico di governo. La stessa sinistra e le stesse posizioni, cioè, che i media che ora denunciano il distacco tra popolo e sinistra hanno sostenuto e sostengono. Non che la denuncia della frattura tra sinistra e popolo non abbia una base solida di realtà, ma la continua descrizione della sinistra come categoria indistinta e contrassegnata da uno snobismo antipopolare ha anche diversi elementi di strumentalità.
Il volume collettivo Popolo chi?, uscito da poco, illustra i risultati di una ricerca su classi popolari e politica condotta dal Cantiere delle Idee nelle periferie di Milano, Firenze, Roma e Cosenza. Da questa ricerca emergono risultati in forte controtendenza. Emerge sicuramente, tra gli abitanti delle periferie, una rappresentazione del mondo basata su contraddizioni. Da un lato, i problemi riscontrati nella vita sociale sono problemi prima di tutto ‘materialistici’: non lavorare o lavorare male, precari e sottopagati; la casa, l’accesso ai servizi e ai trasporti. L’immigrazione è spesso citata tra i problemi più importanti, ma anche di questa si segnala solo il potenziale impatto ‘materialistico’. Il potere è collocato nella dimensione economica, nei grandi attori privati, nel denaro. Dall’altro lato, però, il disprezzo delle persone va soprattutto ai politici e ai partiti, pochissimo a chi detiene il potere economico.
I problemi che si vivono dipendono per questi soggetti sociali da un cattivo funzionamento delle istituzioni. Nello stesso tempo, si invoca il ritorno di partiti e politici autorevoli. Quasi tutto dei problemi dell’Italia è ricondotto a responsabilità dello Stato, ma si chiede il ritorno alla centralità dello Stato. Si difendono la concorrenza e la meritocrazia, ma si è spaventati dallo stato di natura creato dal mercato e si chiedono politiche pubbliche redistributive.
Questo insieme di contraddizioni definisce due polarità. Da una parte è emersa una polarità progressista sul piano delle politiche pubbliche. Dall’altra, una polarità più disincantata, particolarmente sensibile agli allarmi suscitati sul tema dell’immigrazione.
Possiamo affermare, sulla base della ricerca, che ci sia una prevalenza del primo polo sul secondo. Sfumata, ambigua, ma presente. Sui temi del lavoro e dello stato sociale abbiamo identificato un ‘senso comune progressista’. Non abbiamo mai osservato invece accentuazioni xenofobiche o culturaliste dell’ostilità all’immigrazione, anche dove questa è presente. È poi unanime la richiesta di ‘ricostruire la società’, cioè forme di solidarietà collettiva e appartenenza.
Le rappresentazioni politiche delle classi popolari, al contrario di ciò che sostengono molti osservatori, non sono in prevalenza reazionarie. Come sempre, è la politica a decidere quali elementi, all’interno di un groviglio valoriale contraddittorio, diventano egemonici. Limitarsi a montare e smontare liste elettorali, come fa la sinistra italiana da dieci anni, non è l’attività più utile per lavorare in questa direzione.