Dall’artista che fa arte pubblica coinvolgendo i membri delle comunità locali, all’ingegnere con piani innovativi per l’infrastruttura idrica urbana. Chi può diventare citymaker oggi? Per Cassim Shepard, urbanista, regista e scrittore che vive a New York, autore di Citymakers: the culture and craft of practical urbanism (The Monacelli Press 2017), docente alla Graduate School of Architecture, Planning and Preservation presso la Columbia University «l’essenza del citymaking è proprio la possibilità di superare quei profili tradizionali – architetti, paesaggisti, urbanisti e amministratori. È importante» prosegue «abbracciare anche coloro che sono stati investiti in processi di cambiamento sia attraverso gli orti comunitari, sia con l’arte di strada. Una vasta gamma di attività che cerca di trasformare l’interesse che tutti noi abbiamo per la città, per il modo in cui questa si trasforma, per come i quartieri crescono ed evolvono, in azione, in impegno civico».
Ci può fare un ritratto dei citymakers?
Ho trascorso la maggior parte della mia carriera – 20 anni ormai – cercando di raccontare storie di persone che stanno cercando di migliorare i luoghi in cui vivono. Il citymaking comprende una vasta gamma di soggetti e attività che vanno dai volontari che lavorano nei quartieri per incrementare il verde, ai rappresentanti eletti, ai sindaci, agli architetti e urbanisti che realizzano piani su larga scala. Abbiamo tutti la capacità di essere citymakers: l’attività dei volontari, le competenze dei professionisti e la capacità di molti di agire per migliorare le condizioni materiali dovrebbero diventare una conversazione comune.
Ho provato a documentare questa molteplicità di esperienze attraverso i film, la scrittura, i dialoghi online, dove le persone possono discutere del miglioramento delle città. Ho esplorato alcune di queste idee attraverso la pubblicazione digitale «Urban Omnibus»: ogni settimana abbiamo condiviso la storia di una persona con una proposta per il futuro delle città del mondo.
Si tratta di storie singolari ed eccezionali o qualcosa in più?
Dopo aver diretto «Urban Omnibus», mi sono reso conto che quello che avevo tra le mani – cioè una vasta rassegna di pratiche e progetti di citymaking, avviata a partire dal 2008 in coincidenza con la crisi finanziaria, fino al 2015 – era una specie di storia orale.
Ho riletto tutti questi racconti e dati che avevo raccolto, in un certo senso, “involontariamente”, e mi sono reso conto che si trattava di nuova tendenza nella costruzione di coalizioni tra diversi tipi di attori.
New York è un osservatorio d’eccezione.
In quegli anni, un nuovo progetto molto popolare nella Grande Mela era l’High Line, il parco lineare lungo un tratto di infrastruttura ferroviaria per merci abbandonata. Un bellissimo progetto, ma molto costoso e reso possibile solo grazie a un’enorme quantità di coordinamento e risorse. Allo stesso tempo, dall’altro lato della città, nel Queens, troviamo la storia di Corona Plaza. Poco più che un parcheggio in un’area dove c’è un groviglio di infrastrutture, e dove si incontrano due linee aeree della metropolitana. Si tratta anche di uno dei quartieri con più diversità in tutti gli Stati Uniti, dove abitano persone che provengono letteralmente da ogni angolo del mondo. Ma c’è anche molta povertà, insieme all’innovazione.
Alcuni abitanti si sono resi conto che all’interno di questa grande area c’erano capacità nascoste che avrebbero permesso di trasformarla in un altro tipo di spazio pubblico. Una trasformazione che non richiedeva una grande quantità di risorse, competenze o un processo decisionale politico come quello dell’High Line. Iniziò in modo molto informale con un gruppo di commercianti locali. Pochi elementi: luci di Natale, decorazioni coordinate ed è bastato investire l’esterno degli spazi dei negozi con delle piccole istallazioni e subito le persone volevano starci.
Che tipo di azione hanno applicato per Corona Plaza?
Hanno usato ogni sorta di piccola strategia tattica per trasformare lo spazio: anche semplicemente mettere le piante ai margini della strada. Hanno poi creato una coalizione con il governo locale per cambiare l’uso ufficiale dello spazio da strada a parco. È stato coinvolto il Queens Museum, un museo d’arte nelle vicinanze. Il Museo, con le sue risorse, si è davvero impegnato nell’aiutare gli abitanti a realizzare questi progetti.
Corona Plaza, con poco investimento economico ma molto investimento umano, è diventata un’aula all’aperto dove si tenevano lezioni per migranti che studiavano per gli esami di cittadinanza e un luogo per spettacoli artistici. New York City ha una quantità enorme di spazi per spettacoli culturali ma pochissimo spazio per le prove, quindi Corona Plaza è diventata anche una sala prove all’aperto. Si tratta di un esempio davvero interessante di una coalizione costruita tra commercianti, abitanti, volontari, rappresentanti del governo locale e un bell’esempio di ciò che può accadere quando si converge per soddisfare le diverse esigenze creando anche un nuovo tipo di spazio pubblico.
Da dove può ripartire il citymaking dopo questo periodo?
New York, come Milano, è stata colpita molto duramente sin dall’inizio della diffusione della pandemia. Vivo in un quartiere, a Brooklyn, dove l’impatto del virus è stato devastante in termini di decessi. A marzo e aprile si sentiva l’ambulanza tutti i giorni: le persone che venivano allontanate da casa senza nemmeno sapere per quanto tempo, e troppi casi senza farvi ritorno.
Ma è accaduto qualcosa di interessante in un momento così drammatico. Molti già stanno dichiarando che New York è sostanzialmente finita perché la densità è il vero problema e le persone che possono permetterselo lasceranno le città, in quanto l’era urbana è divisa fra smart-working e case suburbane. Non so se accadrà, ma penso che ci saranno alcuni importanti cambiamenti che impatteranno gli immobili commerciali e gli uffici, ma che la città riuscirà a sopravvivere grazie alla forza dei suoi quartieri più popolosi e più poveri, ovvero dove non ci è assistito alla fuga delle persone più abbienti.
Qual è l’esperienza di Brooklyn?
Da giugno c’è stata un’incredibile crescita di spirito comunitario. La gente non prendeva la metropolitana per andare a lavorare, riscoprendo i propri quartieri con investimento incredibile nelle pratiche di mutualismo, nel volontariato per i più poveri, a livello locale. Questa è una novità rilevante: negli Stati Uniti c’è una lunga tradizione di volontariato e beneficenza, ma non necessariamente questa avviene a livello di quartiere.
In estate, questa tendenza è cresciuta di pari passo con il riconoscimento della questione razziale e dei movimenti nati sulla scia dell’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Due pandemie gemelle: quella del Covid-19 e quella della supremazia bianca contro un’espressione comune di solidarietà fra le persone, uscite in strada a reclamare spazio pubblico.
Cosa ha osservato al livello di innovazione e ingegnosità?
New York non è Parigi. Non esiste, per esempio, la stessa tradizione di mangiare all’aperto delle città europee, tradizione ¬– c’è da dire – invidiamo. Quello che è successo in questi mesi è stato che grazie a una modifica molto semplice della regolamentazione locale, dall’inizio di luglio è stato possibile cenare all’aperto: mai vista così tanta innovazione nel design, con materiali semplici, le terrazze all’aperto dei ristoranti hanno sostituito i parcheggi con barriere di legno, fiori e decorazioni. La mia idea è che si potrebbe applicare lo stesso livello di ingegnosità e innovazione a molti servizi pubblici essenziali che potrebbero in parte spostarsi all’esterno.
Ho appena lavorato a un progetto con la biblioteca di Brooklyn che ha filiali in tutto il distretto, ha risorse incredibili ma si rivolge anche a una comunità che ha enormi bisogni. Per esempio, la questione delle scuole online: è difficile fare i compiti se non hai accesso a una banda larga a casa. A New York 300mila bambini non hanno accesso a internet. Molto spesso si vedono seduti sui gradini delle biblioteche chiuse a fare i compiti al telefono. Se solo potessimo applicare lo stesso livello di innovazione che abbiamo visto per i ristoranti e per i servizi pubblici essenziali, credo che miglioreremmo la qualità del vivere la città.
Poco prima della pandemia, la questione del cambiamento climatico sembrava finalmente essere entrata nell’agenda pubblica, anche grazie a figure come Greta Thunberg.
Il cambiamento climatico è una minaccia esistenziale che diventa sempre più presente nelle nostre vite, ogni giorno. Lo dico mentre l’intera costa occidentale del mio Paese è in fiamme e la qualità dell’aria nella costa occidentale è davvero allarmante a causa di incendi violenti che continuano a distruggere territori. A New York, abbiamo avuto queste tempeste molto forti, in altre parti degli Stati Uniti si verificano fenomeni di siccità, in altre uragani, nella costa occidentale e in alcune parti delle Montagne Rocciose abbiamo altri incendi.
Quale rapporto fra una sfida globale e le pratiche di citymaking?
Quando parlo di citymaking in molti casi parlo di pratiche locali che si stanno verificando nel quartiere. È facile manifestare quello spirito civico a livello locale perché puoi vedere subito l’impatto e gli effetti di ciò che stai facendo. Allo stesso tempo è molto facile disperarsi delle sfide planetarie perché non c’è apparentemente molto che possiamo fare. Non penso che sia vero. Ritengo anzi che lo spirito del citymaking non sia solo fare volontariato per migliorare le risorse fisiche del quartiere, ma anche costruire un potere politico a livello locale, che possa scalare verso quel cambiamento sistemico e strutturale di cui abbiamo bisogno a livello nazionale, federale e internazionale per affrontare questa minaccia esistenziale.
Uno dei modi in cui penso che l’etica del citymaking possa essere molto utile in un discorso sul cambiamento climatico è il modo in cui ristabiliamo un rapporto tra le azioni dei singoli cittadini e il governo. Nel Paese la mancanza di fiducia tra cittadino e governo è così estrema che ha completamente distrutto la nostra capacità di gestire questa pandemia o di affrontare alcune delle questioni di base. Non credo che potremo mai avvicinarci ad affrontare le minacce del cambiamento climatico se quella sfiducia non viene affrontata a testa alta. Un modo per farlo penso sia provare davvero a utilizzare un’etica del citymaking per rendere più leggibile la complessità della gestione urbana al cittadino medio.