Quello sciopero generale doveva risvegliare lo spirito rivoluzionario del 1905. Era passato poco più di un anno dalla nascita del primo Consiglio dei deputati operai di Ivanovo-Voznesensk, e si cercava di costituire il soviet anche a Mosca. Ecco allora che centocinquanta deputati si riunirono ed elessero una commissione esecutiva per dirigere lo sciopero. Ma le cose non andarono bene: dopo pochi giorni lo sciopero dovette essere interrotto; anche il soviet scomparve.
La rivoluzione del 1905 segna un momento importante nella storia della democrazia. Nasceva, e questo già si sa, un nuovo soggetto politico. Nel momento del conflitto sindacale, il consiglio dei deputati operai dirigeva lo sciopero, favoriva la cooperazione tra interessi diversi e avanzava le rivendicazioni collettive. I soviet s’imponevano allora come un organo rappresentativo di tutti gli operai e capace, se necessario, di prendere in mano anche l’amministrazione locale. Se questo è vero, perché non guardare anche ai consigli per colmare il divario tra rappresentanti e rappresentati? Visti da vicino, ahimè, i consigli rivelano quanto sia complicato innovare le strutture della democrazia rappresentativa.
Si pensa che nella Mosca del 1906 fosse ormai troppo tardi: mancava il terreno di nascita dei consigli dei deputati operai, non c’erano più le condizioni che avrebbero conferito al soviet significato e rilevanza. Quello sforzo era poco più di una replica. Non a caso i primi soviet sono sorti nel corso della rivoluzione russa del 1905, sono poi scomparsi e si sono ricostituiti solo dopo parecchi anni, nel 1917.
Per molti, 1905 e 1917 sono estremi temporali che identificano l’apertura di nuove possibilità culturali e politiche, ma davvero è solo questo? Quella della lettura ideologica è una tentazione ricorrente. Intanto, però, perdiamo la sostanza dei consigli. Per anni il soviet è rimasto il fine, non il mezzo, di molte lotte rivoluzionarie. Curiosamente più si andavano inseguendo i consigli, più si dimenticava l’eccezionalità di queste iniziative democratiche. Chiediamocelo, dunque, quanto la fragile esistenza dei soviet ne riveli piuttosto l’audacia.
I soviet ci dicono che non sempre si può rispondere alle circostanze con scelte mediate e perfettamente razionali. Nuove possibilità si aprono semplicemente perché non si può fare altrimenti. “Il soviet dei deputati operai,” come scriveva Lev Trockij, “sorse come risposta ad una esigenza oggettiva, partorita dal corso stesso degli eventi, di una organizzazione che fosse autorevole senza avere una tradizione, che abbracciasse immediatamente le grandi masse disperse senza subire gli intoppi dell’organizzazione; che facesse confluire in un punto le correnti rivoluzionarie all’interno del proletariato, che fosse capace di prendere l’iniziativa, che controllasse automaticamente se stessa e, soprattutto, che potesse sorgere dal nulla in non più di 24 ore”.
Qui sta la prerogativa dei soviet. Certo, era necessario avere una larghissima rappresentatività per godere di un’autorità ben fondata. E tuttavia questo non sarebbe stato mai sufficiente. A differenza di partiti e sindacati, i consigli degli operai diventavano possibili in un punto preciso. Con le forze a disposizione i soviet scaturivano dal modo di vivere rivoluzionario, ne ereditavano il carattere provvisorio e l’indeterminatezza.
Senza l’occasione propizia e l’indispensabile accortezza nello scegliere il momento opportuno per agire sarebbe stata tutta fatica sprecata. Proprio per questa natura improvvisa i consigli sono configurazioni con un ciclo vitale breve e incompleto. Quando le certezze su cui si fondava l’esistenza collettiva venivano sgretolate, il soviet colmava un vuoto. In questo stadio transitorio, per iniziare a guardare alla politica in un altro modo, si organizzava come un’entità indipendente da qualsiasi autorità centrale.
Ora, a cento anni dalla riforma dei soviet che portò al rovesciamento del regime zarista, sembra che curiosamente siamo tornati al punto di partenza. Quante pagine sono state scritte sulla crisi della democrazia? In tanti hanno lamentato la perdita di credibilità dei sistemi politici tradizionali. Altri hanno già spiegato che la democrazia rappresentativa classica non mobilita più la fiducia e le energie dei cittadini.
1929. Manifesto di propaganda russa tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Negli ultimi anni non si contano i tentativi di superare questo divario attraverso la partecipazione diretta dei cittadini nel disegno delle politiche pubbliche. Dietro questo imperativo deliberativo, si trovano i più diversi e sofisticati modelli di discussione pubblica. E tuttavia anche questi esempi sembrano esausti. Serve altro, serve di più; direbbe qualcuno. Ma come?
Che ci piaccia o no, la democrazia dei consigli ci insegna che la buona organizzazione non precede l’azione, ma può solo essere uno degli esiti. Così, come avevano compreso Hanna Arendt e Rosa Luxemburg, programmi troppo precisi costringono creazioni che, con la loro natura inattesa, generano nuove opportunità, per poi, nel punto più alto, essere destinate a perire e provocare disaccordo.
E allora, se esiste una crisi della democrazia rappresentativa classica, aspettiamo. Aspettiamo i cittadini e la loro reattività. Aspettiamo, chissà per quanto. Poi tanto si inizierà a litigare di nuovo.
1917-2017: Una storia europea chiamata Rivoluzione, la mostra che Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha presentato in Viale Pasubio nella ricorrenza dei cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e visitata da oltre 4000 persone, viene prorogata al 7 gennaio. La Fondazione, nell’ambito di ricerca dedicato al significato di identità europea e alla sua storia, intende salutare il 2017 e dare il benvenuto al nuovo anno e continuando la programmazione e tenendo aperto il centro culturale di viale Pasubio durante il periodo natalizio.