Per lo speciale La classe operaia senza paradiso
Report dal workshop La classe operaia senza paradiso, Fondazione Feltrinelli
Partito e classe
I termini partito e classe sono oggi quasi del tutto scomparsi dal discorso pubblico, e potremmo chiederci se siano solo i termini a essere scomparsi – a causa di un processo di rimozione più o meno deliberato – oppure se sia scomparso ciò a cui i termini si riferivano, o ancora se ciò cui si riferivano abbia subito una trasformazione così grande da essere diventato irriconoscibile. Quasi nessuno, oggi, ricorda più cosa sia la classe, quasi nessuno oggi sente di appartenere a una classe e i soggetti che dovrebbero fare parte della classe non si riconoscono più come parte di un gruppo: secondo una espressione (di nuovo) fuori moda, potremmo dire che ogni classe ha perso “coscienza” di sé.
Eppure, fino a poco più di trent’anni fa quasi tutti sentivano di appartenere a questa o a quella classe.
Il Novecento aveva prodotto uomini e donne convinti che l’unione facesse la loro forza, e che il singolo, da solo, avesse ben poche speranze di realizzare sé stesso e la propria felicità.
Poi, verso la fine del secolo, un nuovo corso di pensiero si è imposto: dal punto di vista culturale si è diffusa l’idea, paradigmaticamente espressa da Margaret Tatcher, che “non esiste la società, esistono solo gli individui”. Potremmo dire che il Novecento è finito precisamente qui, quando sono tramontati i soggetti collettivi, e al loro posto si è imposta l’idea che l’individuo deve combattere da solo contro tutti gli altri per garantirsi un suo piccolo posto nel mondo. Eravamo nel 1987: il Novecento – cominciato nel 1914 – in questo senso sarebbe stato davvero brevissimo.
Cosa è successo in questi quarant’anni che ci separano da quella data? Com’è possibile che nel giro di qualche generazione sia sparito tutto quello che un secolo di lotte e di processi collettivi erano riusciti faticosamente a costruire?
Questo cambio di paradigma antropologico era stato preceduto da una radicale ristrutturazione dei rapporti sociali, dovuta (come sempre avviene) a una trasformazione epocale nel modo di produzione. Cambia il mercato – che diventa via via sempre più globale, cambia la produzione, cambia il modo in cui si lavora e, dunque, cambiano i lavoratori. Essi non si ritrovano più tutti insieme sotto lo stesso tetto a condividere su larga scala mansioni, compiti, obiettivi: piuttosto, le loro attività diventano sempre più specifiche, i loro contratti sempre più particolari e cuciti addosso al singolo lavoratore, più che sulla categoria cui ognuno appartiene.
La fabbrica, il cuore della produzione materiale, perde la centralità indiscussa che aveva avuto sin dalla sua prima apparizione nella storia umana, circa due secoli prima, nel corso della rivoluzione industriale.
Il workshop
Il workshop organizzato da Fondazione Feltrinelli, dal titolo La classe operaia senza il paradiso, a cura di Marc Lazar, ha provato a ripercorrere e a riflettere su queste trasformazioni. La data simbolica che racchiude e sintetizza questi processi è il 1989: cade il muro di Berlino e con esso un intero mondo, quello sovietico, si sgretola a gran velocità.
Agli ospiti presenti viene chiesto di riflettere su ciò che rimane sotto le macerie del muro, cioè sui cambiamenti emersi in quella data epocale, ma già in corso sotterraneamente da molto tempo.
Quando e come è cominciata la trasformazione antropologica che avrebbe portato poi alla scomparsa della classe operaia come soggetto storico? E come hanno reagito le forze progressiste a questa trasformazione? Possiamo dire, a distanza di quasi trent’anni, che le forze di sinistra abbiano raccolto e compreso davvero le sfide che il nuovo secolo presentava?
A queste domande sono stati chiamati a rispondere alcuni storici e studiosi che, ognuno a partire dal proprio campo di ricerca, hanno cercato di illuminare gli snodi principali di queste trasformazioni. Sono intervenuti Alberto Prunetti, David Bidussa, Luciano Fasano, Lorenzo De Sio, Luigi Vergallo, Enrico Mannari, Massimiliano Boni, Andrea Fumagalli Leonardo Casalino, Damiano Palano, Goffredo Adinolfi, Agostino Megale e diversi altri ospiti. A monte di questa riflessione collettiva si impone un’urgenza che non è solo quella di riflettere sul passato, bensì anche quella di comprendere il nostro presente e di immaginare quali possano essere le nuove forme di organizzazione politica del lavoro e della classe.
Ha aperto i lavori Marc Lazar inquadrando fin da subito il quadro storico generale in cui si è poi mossa la riflessione degli ospiti; per prima cosa, ha sostenuto Lazar, è necessario partire dall’ammissione di una cicostanza per troppo tempo rimossa dalla sinistra: non è affatto vero che il mondo operaio, anche quello organizzato, si riconoscesse in passato integralmente nella sinistra. L’idea di un ipotetico universo operaio compatto e unito attorno ai valori dell’uguaglianza, fa parte di una ricostruzione mitologica, necessaria forse per l’edificazione di una identità politica, ma non certo utile all’indagine storica.
Ciò contribuisce a spiegare come mai, alla fine del secolo, si può dire conclusa la stagione della lunga luna di miele tra partiti di sinistra e la classe operaia, dal momento che, mentre i partiti socialdemocratici facevano il loro corso, in Europa altre forze, altre mitologie e altre visioni del mondo erano all’opera.
In particolare, ha affermato Lazar, nel mondo del lavoro è cresciuta a poco a poco la percezione di essere costantemente sotto lo scacco di una minaccia: la globalizzazione, l’immigrazione, il pericolo rappresentato dall’”assistenzialismo” e dal welfare. La fiscalità generale, dapprima vista come strumento di coesione e come correttivo delle diseguaglianze sistemiche, mezzo indispensabile per la tenuta del patto sociale, prende a essere percepita come una minaccia: all’inizio unanimemente considerata una forma di giustizia, è stata poi vista come l’espressione di una ingiustizia.
E i lavoratori, sempre più inclini a credere alle sirene della mitologia del merito, secondo la quale chi più lavora più deve avere, hanno iniziato a rifiutarlo. Molti anni dopo, Silvio Berlusconi avrebbe sintetizzato questo sentimento diffuso con una frase rimasta celebre: ‘Lo Stato non deve mettere le mani nelle tasche dei cittadini’. Il welfare, lo stato sociale, la redistribuzione della ricchezza per corregere le diseguaglianze: tutte queste cose venivano ormai definite assistenzialismo, il quale diventò uno dei bersagli principali della propaganda di tutte le forze antiprogressiste.
Ecco uno dei momenti cruciali del percorso su cui gli studiosi del workshop sono stati chiamati a riflettere: nel corso degli ultimi anni del secolo non solo è cambiata la sinistra, in termini di offerta politica, ma è soprattutto cambiata la domanda, ovvero: ciò che la classe di riferimento, in questo caso la classe lavoratrice, desidera e spera.
Questi mutamenti dell’immaginario simbolico nella classe lavoratrice occidentale hanno tuttavia le proprie radici nei mutamenti della struttura economica della società stessa. A partire dalla fine del XX secolo, si è assistito a una crescente globalizzazione dell’economia, caratterizzata dalla liberalizzazione dei mercati, dalla riduzione delle barriere commerciali e dalla facilità di movimento dei capitali e delle merci attraverso le frontiere nazionali. Le imprese, al fine di sfruttare i vantaggi competitivi offerti dalla globalizazzione, hanno iniziato a delocalizzare la produzione verso paesi con manodopera a basso costo, chiudendo le fabbriche o riducendo il numero di lavoratori impiegati in occidente, poiché potevano ottenere prodotti a basso costo dai paesi in via di sviluppo.
Come risultato, le aziende hanno aumentato esponenzialmente il loro potere negoziale nei confronti del lavoro, cosa che si è tradotta nell’abbassamento della qualità e degli standard lavorativi che le generazioni precedenti avevano ottenuto con le lotte sindacali. In concomitanza con la deindustrializzazione, si è assistito a una crescita del settore dei servizi nei paesi sviluppati. Poiché la produzione manifatturiera si spostava verso paesi a basso costo, l’occupazione in Europa si spostava verso settori come i servizi finanziari, le tecnologie dell’informazione, il commercio al dettaglio, il turismo e, soprattutto, le piattaforme. La deindustrializzazione, con i suoi profondi effetti sociali ed economici nei paesi del vecchio continente, ha comportato la perdita di posti di lavoro soprattutto nel settore manifatturiero.
Per ricapitolare: agli effetti pratici della deindustrializzazione, cioè la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro, si aggiungono gli effetti simbolici, ovvero la progressiva perdita di fiducia dei lavoratori nelle organizzazioni di partito e sindacali.
Naturalmente è bene sottolineare che la deindustrializzazione non hanno comportato immediatamente la fine dell’industria e la fine della fabbrica, ma piuttosto una loro trasformazione e una riduzione relativa della loro importanza all’interno di un’economia nazionale. Luigi Vergallo a questo proposito ha notato come, più che di reale deindustrializzazione, bisognerebbe parlare forse di riduzione della densità media degli stabilimenti produttivi, e soprattutto della discrepanza fra deindustrializzazione percepita e deindustrializzazione effettiva.
In termini più generali, Vergallo ha rilevato come sia sempre necessario tenere a mente che, accanto alla struttura oggettiva, esiste anche la dimensione simbolica dell’immaginario, ugualmente importante per comprendere le vicissitudini di un’epoca. Dunque: negli ultimi due decenni del secolo si è fatta strada l’idea che fosse in atto, nel vecchio contintente, un graduale smantellamento del tessuto produttivo, delle fabbriche, dei grandi stabilimenti. Indipendentemente dalla veridicità della tesi, questa convinzione contribuisce a creare, nella classe lavoratrice, quasi un senso di resa o, se non altro, la percezione di non essere più il centro motore della società, bensì di essere ormai destinati a un spazio periferico e marginale.
È necessario al contempo menzionare il fatto che tutti questi processi avvengono in un arco temporale piuttosto disomogeneo nei vari paesi europei: il mondo dei minatori, ad esempio, scompare già alla fine degli anni ’60, mentre ancora le grandi fabbriche rimanevano il cuore pulsante di molti centri urbani.
A partire da qui Andrea Fumagalli ha cominciato a riflettere sui mutamenti intervenuti della composizione del capitale stesso: nel 1985 la quota di capitale intangibile aveva ormai superato la quota di capitale tangibile. Anche il capitale segue dunque il paradigma tecnologico della smaterializzazione: da un modello di produzione centralizzata e verticalmente integrata, basato su produzioni tangibili e caratterizzato da una rigida organizzazione del lavoro e rendimenti crescenti, si è passati a una produzione basata su flussi (Fumagalli usa l’aggettivo “rizomatico”, citando Deleuze) che coinvolge una pluralità di soggetti non strettamente legati alla produzione manifatturiera.
La figura dell’operaio in catena di montaggio, rappresentativa del modello fordista e numericamente predominante fino alla prima metà del secolo, diventava minoritaria. Non era più possibile parlare di una sola composizione tecnica del lavoro, ma di molteplici composizioni tecniche: la classe non esisteva più; al suo posto, una pluralità di individui si affacciava sulla scena. A questo punto, si è chiesto Fumagalli, cosa succede, in termini di sfide politiche e sindacali, quando la classe, singolare determinativo, diventa plurale?
In primo luogo, continua Fumagalli, la proliferazione dei rapporti di lavoro ha comportato la perdita di efficacia della contrattazione collettiva, e dunque della forza delle organizzazioni di larga scala. Invece di negoziare e rappresentare collettivamente i propri diritti attraverso il sindacato, ogni soggetto (si tratta ovviamente di una proiezione tendenziale) ha preso a contrattare le proprie condizioni lavorative individualmente con l’azienda. Oltre al danno, la beffa: questo meccanismo è stato spacciato come valorizzazione delle particolarità, dell’individualità, delle differenze e del merito individuale; e invece si è trattato di una ristrutturazione dei rapporti sociali tutta a danno del lavoro: la ‘valorizzazione delle particolarità’ si è trasformata in individualismo, e la flessibilità in precarietà.
Il collettivo di fabbrica della GKN
Una tappa cruciale di questo attacco al mondo del lavoro viene descritta da Alberto Prunetti, che di recente si è occupato di organizzare, insieme con gli operai del Collettivo di fabbrica della GKN di Firenze, il primo festival di letteratura working class in Italia. Prunetti ha riportato le parole di un operaio della GKN che descrivono un episodio particolarmente eloquente per comprendere le conseguenze di questo processo sul piano simbolico: un tempo gli operai della fabbrica GKN avevano in dotazione la tuta blu; improvvisamente, una decisione dei dirigenti ha imposto a tutti gli operai una tuta di colore bianco, la quale, come facilmente prevedibile, si rovina e si macchia molto più facilmente. Potrebbe sembrare un dettaglio insignificante dal punto di vista pratico, eppure la tuta blu, tradizionalmente associata al lavoro manuale e industriale, portava con sè un senso di orgoglio e appartenenza, essendo un simbolo tangibile del ruolo e della identità degli operai all’interno della fabbrica.
L’introduzione delle tute bianche comporta invece una trasformazione qualitativa rilevante. Non solo, dal momento che il colore bianco è quello più suscettibile alle macchie e ai segni di usura, le tute diventano più difficili da pulire e da mantenere in buono stato, creando un senso di frustrazione tra gli operai, ma si colpisce e si cancella in questo modo uno dei caposaldi dell’identità degli operai, i quali fino a quel momento venivano anche chiamati, per metonimia, tute blu, in opposizione ai colletti bianchi, gli impiegati d’ufficio.
Il tema diventa dunque la percezione che gli operai hanno di sé stessi: tramontato il tempo dell’orgoglio di appartenere alla forza produttiva del paese, tramontato il mito del lavoro come forma di elevazione singola e collettiva, rimane piuttosto questo imbarazzo o disagio ben descritto da Prunetti. A ciò si collega Luciano Fasano che sottolinea l’importanza di studiare non solo le condizioni oggettive, gli aspetti tecnici in cui si trova il mondo del lavoro, bensì anche le condizioni soggettive, ovvero la rappresentazione che la classe operaia – cioè i suoi membri – ha di se stessa. In passato, continua Fasano, una parte importante di questa percezione derivava dalla comprensione di sé all’interno di una struttura gerarchica, in cui si aveva un ruolo e una funzione ben definiti. Tuttavia, con l’avvento dell’economia delle piattaforme, si è assistito a unazzeramento della percezione di questa struttura gerarchica: e tuttavia, nonostante siano adesso invisibili, le gerarchie continuano a esistere.
Il ruolo dei partiti socialdemocratici
Qual è dunque, in questo contesto, il ruolo dei partiti socialdemocratici? Da un lato, ha sostenuto Lorenzo De Sio, possiamo affermare che questi partiti hanno raggiunto parte dei loro storici obiettivi. Nel corso del tempo, essi hanno ottenuto importanti conquiste sociali, come la creazione di sistemi di welfare e una certa protezione dei diritti dei lavoratori. Tuttavia, questa stessa agenda politica ha portato a una progressiva distanza dalle classi popolari, mentre al contempo si avvicinavano alle classi medie: “we are all middle class now”, disse nel 1997 Peter G. Peterson, uomo d’affari e politico statunitense, sintetizzando la parabola del partito laburista di Tony Blair negli anni ’90.
Ma la crisi dell’offerta politica dei partiti socialdemocratici ha anche radici più profonde: le dinamiche globali, già menzionate a proposito dell’apertura dei mercati, hanno avuto degli effetti anche dal punto di vista politico. I partiti e i governi hanno cioè dovuto rassegnarsi, per via dei vincoli esterni imposti dai processi di integrazione europea, alla propria limitata capacità di implementare politiche del lavoro e politiche industriali che potessero garantire una maggiore autonomia economica.
Giunti alla fine del nostro incontro, e collegandosi proprio all’idea che i partiti hanno dovuto confrontarsi con cambiamenti politici o della struttura economica su cui non sempre avevano la possibilità di intervenire, Luciano Fasano ha ricordato che, al netto di alcuni errori strategici o tattici dei partiti socialdemocratici, bisogna tenere a mente che i processi storici sono processi sistemici di lungo periodo e non dipendono dalla volontà o dall’efficacia delle azioni dei soggetti coinvolti. Bisogna evitare di confidare troppo nella intenzionalità dei processi storici, ovvero a credere che esistano forme politiche o strategie in grado di intervenire definitivamente sui movimenti tellurici sotteranei alla struttura economica di un’epoca.
E tuttavia esiste un margine di manovra per migliorare le condizioni in cui il lavoro di volta in volta si trova. Il workshop si è chiuso con l’apertura verso spazi di intervento politico: gli ospiti, interrogandosi su quali siano i modi di ricostruzione di forme di aggregazione sociale, concordano sull’idea che, dal momento che (come si è visto) il lavoro si è disgregato, pluralizzato e, in ultima analisi, è impossibile riferirsi ad un unico soggetto al suo interno, è necessario cercare forme di ricomposizione sociale anche al di fuori del lavoro stesso.
Damiano Palano ha suggerito a questo proposito che all’interno di quella che noi chiamiamo ‘classe’ esiste una antropologia diversificata e molteplice, dove si incontrano spesso potenti resistenze alle mobilitazioni collettive. Allo scopo di superare queste resistenze, Alberto Prunetti ha riportato ad esempio l’esperienza del festival di letteratura working class, evento assolutamente inedito in Italia, in grado di dar voce ai lavoratori, chiamati, come recita il sottotitolo dell’evento, a ‘scrivere la propria storia’.
L’obiettivo del festival non era quello di organizzare una serie di conferenze e incontri su temi sindacali o su vertenze particolari, bensì quello di cercare di costruire collettivamente una visione del mondo di classe, di fornire uno spazio di partecipazione per raccontare il mondo dal punto di vista degli operai. All’importanza cruciale della partecipazione si è ricollegato Enrico Mannari, il quale ha introdotto un concetto centrale nella riflessione di tutti gli ospiti: il rapporto tra il lavoro e la vita.
Anche secondo Mannari l’esperienza degli operai GKN fornisce un esempio paradigmatico di ricomposizione tra teoria e azione, lavoro e vita, dal momento che con il Collettivo di fabbrica si assiste non solo alla messa in scena di una vertenza sindacale specifica, ma piuttosto “la vita entra nella fabbrica” (come ricordava Prunetti). In questo senso, ha detto ancora Andrea Fumagalli, è necessario, per le forze politiche di sinistra “aggredire la vita”: i desideri e le speranze delle masse non risiedono e non passano più per il lavoro, ma per tutto ciò che dal lavoro esula. Per intervenire sui processi lavorativi, dunque, non è più sufficiente affrontare la questione lavorativa in sé, bensì diventa essenziale intervenire sulle forme di sicurezza sociale; se la vita viene sempre più inserita in una dinamica di valorizzazione, le politiche della vita diventano automaticamente politiche del lavoro.
Abbiamo aperto i lavori parlando del Novecento come del secolo che aveva prodotto i soggetti collettivi, il partito e la classe. Abbiamo chiuso con un’immagine, anch’essa ossimorica, che fa da contraltare e che ne rappresenta la nemesi: il nuovo secolo ha prodotto una società di individualizzazione di massa, secondo la formula di Luciano Fasano. Viviamo una società che si muove per grandi flussi, le catene di approvvigionamento globali consentono a prodotti e risorse di essere scambiati su scala internazionale, agli esseri umani di viaggiare e spostarsi a una velocità inaudita. Le transazioni finanziarie avvengono in quantità enormi, con miliardi di dollari che si spostano ogni giorno attraverso i mercati finanziari. Eppure, nonostante questa connessione delle merci e dei mercati, la divisione del lavoro è talmente specializzata e complessa che sembra impossibile trovare il minimo comune denominatore tra interessi comuni di individui ormai così diversi gli uni dagli altri: paradossalmente, la distanza fra le persone, quasi azzerata dalle tecnologie, è aumentata in modo esponenziale.
Che fare? Avrebbe detto qualcuno. Lungi dal fornire risposte univoche e definitive, gli ospiti hanno condiviso quale dovrebbe essere l’urgenza e la missione storica delle forze progressiste, ovvero quella di ricostruire l’unità del soggetto collettivo disgregato e disperso: si tratta di porsi il problema, per usare un termine (di nuovo) caduto nell’oblio, della ricomposizione di classe.