È noto lo scatto fotografico che immortala quell’eccezionale stretta di mano: il primo ministro cinese Zhou Enlai e lo stuolo di accompagnatori girati di spalle. Il fotoreporter guarda Richard Nixon, affiancato dalla presenza luminosa della moglie Thelma Catherine: il suo cappotto rosso è l’unico colpo di luce nel grigio della delegazione.


Che cosa sta accadendo?

Parliamo di uno dei più emblematici incontri tra vertici, capace di rompere il bipolarismo geopolitico della Guerra fredda e scompaginare lo schema cristallizzato dalla fine della Seconda guerra mondiale. La visita diplomatica degli Sati Uniti, rappresentati dal Presidente repubblicano Nixon, nella Cina di Mao Tse-Tung riapre pubblicamente una comunicazione chiusa nel 1949, a seguito della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese.

Un viaggio, come si legge nel Comunicato congiunto cino-americano diffuso al termine della visita, teso “alla normalizzazione tra Cina e Stati Uniti nell’interesse di tutti i Paesi”. 

Dopo quel gesto e quella scelta, come spiega Romeo Orlandi, l’espressione “Nixon goes to China” diventa proverbiale: come a dire che soltanto un presidente dall’incrollabile fede repubblicana avrebbe potuto affrontare quel viaggio senza perdere di credibilità, nonostante il disastro vietnamita e il dichiarato spirito anticomunista.

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Il primo dato da considerare è infatti la natura fortemente mediatica dell’incontro. Il 15 luglio del 1971, Nixon in persona aveva rilasciato un programma di intenti in cui annunciava il viaggio diplomatico verso la Cina:

“Quattrocentoventi parole, pronunciate in 90 secondi alla televisione di Los Angeles”, come affermava meticolosamente Andrea Barbato in un servizio speciale del Telegiornale italiano.[1]

A questo era poi seguito un altro chiaro segnale di disgelo, il 25 ottobre 1971, quando Nixon sciolse le riserve ad ammettere Pechino nell’Onu e la Cina poté entrare ufficialmente e in maniera permanente nel Consiglio di sicurezza.[2]

L’incontro tra vertici diventa così un dato distintivo della diplomazia internazionale del XX secolo. Scene che delineano il cambiamento e immortalano l’inversione di rotta. Così Nixon in visita a Pechino è l’antecedente fondamentale di tutta la politica del disarmo, negoziata a colpi di noti incontri tra capi: come il viaggio diplomatico che Henry Kissinger, Segretario di Stato USA, fece a Mosca l’anno precedente, allo scopo di stilare i trattati antimissilistici (Trattato Abm e Salt 1). O come l’incontro che nel 1985 si svolse a Ginevra tra Michail Gorbaciov e Ronald Reagan.


Nixon impugna le bacchette

Tornando alla scena iniziale, ci sono altri scatti meno noti di quella settimana di visita diplomatica, dal 21 al 28 febbraio 1972, che comunicano ancora meglio la portata culturale del cambiamento: la cena di gala a Shanghai, l’ultima sera, Nixon che impugna delle bacchette e osserva il primo ministro per capire come usarle. Un gesto insolito per un presidente americano, che per la prima volta faceva irruzione nei media dell’Occidente. Come scrive Marcello Flores, visto con il senno di poi l’incontro tra Nixon e Mao può sembrare lungimirante, sebbene le conseguenze immediate del viaggio a Pechino furono per certi versi evanescenti, come osserva Francesca Maremonti.


Il tempo passa al setaccio le logiche politiche del passato, le rigidità e gli schematismi in quel momento vitali e a distanza di cinquant’anni vediamo meglio la fisionomia di quell’avvenimento.

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Il centro della politica approdava nel Pacifico e abbandonava definitivamente l’Atlantico – lo specchio di mare che era stato il centro dell’equilibrio europeo lungo tre secoli, a partire dall’espansione coloniale spagnola, portoghese, francese, inglese e olandese, dalla costruzione dell’America iberica, compreso quel «Mediterraneo» rappresentato dal sistema insulare dei Caraibi.

Oggi, retrospettivamente, quella scena segna questo passaggio irreversibile (o almeno che in questo nostro tempo appare irreversibile), che significa anche marginalità dell’Europa da allora impegnata, più o meno consapevolmente, a ritagliarsi un proprio spazio, a ritrovare un proprio ruolo.

Darsi una funzione

La sfida di quella scena ha un segmento rilevante lontano da Pechino, ma nella progressiva marginalità dell’Europa da allora impegnata a ritrovare una propria funzione, a dotarsi di una politica che abbia rilevanza e «peso» nel sistema complesso degli equilibri, per uscire dal cono d’ombra o, più prosaicamente, dall’angolo della storia dove si trova a guardare il farsi della politica mondiale da almeno un trentennio. Ovvero dalla fine della Guerra fredda, quando pensava che la scena del crollo del Muro di Berlino sancisse il suo nuovo protagonismo, salvo scoprire che gli equilibri del sistema mondo si decidevano altrove, e al più poteva aspirare al ruolo di confine di un sistema di influenze decise o discusse altrove.

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Allora, in quel momento non era ancora chiaro. Oggi lo vediamo, in tutta la sua forza anticipatoria delle grandi mutazioni intercorse, dello stravolgimento di un intero scacchiere globale.


[1] Video disponibile su Rai cultura: https://www.raicultura.it/storia/articoli/2019/02/Richard-Nixon-in-Cina-cc4ccd5f-aeaf-45db-b58e-7135b6eb30c5.html 

[2] Cfr., Guido Saramani, La Cina del Novecento. Dalla fine dell’impero a oggi, Einaudi, Torino 2008, pp.  288-300.

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