Non solo storia – Calendario Civile \ 23 novembre 1980
Che cosa è la memoria del trauma delle catastrofi?
A quaranta anni dal terremoto in Irpinia, abbiamo chiesto a Gabriele Moscaritolo e a Sara Zizzari – che si sono occupati soprattutto delle conseguenze di quegli eventi sulle comunità locali (in Irpinia e a L’Aquila) – di affrontare quelle storie partendo dal “dopo”, da “ora”, per tornare indietro a scavare nei punti caldi di quel dolore. Dolore individuale e di comunità in cui si sovrappongono: senso della perdita, smarrimento, nostalgia, esilio, voglia di tornare a esserci. Gabriele Moscaritolo e Sara Zizzari ci raccontano cosa significa non solo quel dolore, ma anche quali siano le domande che oggi quelle comunità pongono al pubblico, oltreché a sé stesse.
Perché appunto, come scrive Gabriella Gribaudi, i luoghi feriti da catastrofi hanno dentro i segni di una lunga incuria e, spesso, si tratta di tornare a interrogare quelle cicatrici o ciò che esse lasciano intravedere (seguendo una suggestione carica di sorprese che ci ha lasciato Marc Bloch, nel suo I caratteri originari della storia rurale francese) per cercare di dare un profilo alle cause: e dunque per provare a ripensare scelte, comportamenti, azioni.
Ma anche perché – come abbiamo avuto modo di sottolineare parlando di Genova (non solo della sua crisi industriale, ma anche della fragilità del suo territorio) – ogni volta che si affronta la questione ambiente parliamo di quadri ambientali (intendendo con questo termine non solo la natura, ma anche il modo di viverla, di sfruttarla, da parte degli uomini nel tempo).
Ogni volta che si riflette su questi temi è del rapporto tra uomo e ambiente che stiamo indagando: le scelte economiche, i processi di industrializzazione, gli insediamenti urbani. In breve, gli interventi che gli ambienti hanno vissuto e subito. In quell’interconnessione che lega persone, luoghi, animali, strutture, infrastrutture, vegetazione. Non solo. Insieme a questo dato, l’altro fattore che occorre prendere in esame è come si forma nel tempo un’idea di ambiente (ovvero quale educazione civile prende forma), proprio a partire dalle “disavventure”, da un improvviso mutamento della vita quotidiana delle persone e, non ultimo, come queste iniziano a preoccuparsi delle “cose”.
L’Italia dei terremoti, anche per questo, è un ottimo scenario per considerare il farsi di questo processo: da dove partivamo, quanta strada abbiamo fatto, a che punto siamo oggi. L’Italia dei terremoti, dunque non come occasione per ricostruire la scena della catastrofe, ma per riflettere sulla presa in carica di un problema nel tempo, da allora a ora.
L’Italia dei terremoti non è solo le persone che sono state colpite direttamente. Sono anche le istituzioni, i governi, l’opinione pubblica che ha visto la sofferenza.
Perciò ci siamo chiesti che Italia fosse quella che guardava le scene che improvvisamente iniziano a scorrere la sera del 23 novembre 1980 in televisione nell’ora dei Tg della sera (il terremoto è praticamente ancora in corso, la prima scossa alle 19:34) appunto mentre l’Italia sta per andare a tavola. Molti probabilmente hanno ancora vive le scene del terremoto in Friuli (6 maggio 1976). Tra i due avvenimenti, le immagini del disastro ambientale a Seveso (10 luglio 1976) quando dall’azienda ICMESA di Meda fuoriesce e si disperde nell’aria una nube della diossina TCDD, una sostanza chimica fra le più tossiche.
L’Italia – una realtà in quegli stessi anni attraversata da profondi conflitti sociali e da violenze – appare agli occhi di molti un Paese provato, ferito nella sua carne, tra cielo e terra. A differenza però delle scene che altre volte hanno segnato il dopoguerra – a cominciare dalla alluvione in Polesine nel 1952 – il Paese crede sempre meno alle disgrazie, o agli eventi non prevedibili.
Il disastro del Vajont (9 ottobre 1963), le molte forme in cui si manifesta l’alluvione che sommerge molte parti d’Italia (3-4 novembre 1966), il terremoto del Belice (14 -15 gennaio 1968) hanno fatto lentamente crescere una domanda di sicurezza, di garanzia, ma anche un diverso sguardo alle ferite del e sul territorio, prodotte dalle catastrofi, ambientali o industriali.
A cavallo tra anni ’40 e ’50 (più o meno al tempo dell’alluvione in Polesine) l’Italia, ancora una società contadina, risponde ai disastri ambientali con l’abbandono e la fuga, dà per scontato che non si possa modificare il quadro ambientale. La catastrofe è una “fatalità”. L’ultimo momento in cui prevale ancora l’Italia dei Malavoglia di Verga. Con gli anni ’60 quel registro cambia radicalmente e quella parola perde cittadinanza.
Ora, a partire dal Vajont, in forma sotterranea, poi sempre più chiaramente con la definitiva svolta industriale del Paese, le “disgrazie ambientali”, non sono più vissute come “caso” o come “fatalità”, ma come effetto di una mancanza di cura. Quel passaggio di sensibilità avviene alla fine degli anni ‘60. Uno dei primi momenti è segnato appunto dall’attenzione alla salute, ma anche alla gestione delle emergenze sanitarie che sono anche soglie di criticità del territorio (è questo il tema del convegno su fabbrica e salute che si tiene a Rimini il 27-30 marzo 1972 di cui leggiamo qui le conclusioni)
Poi le mobilitazioni che coinvolgono realtà associative, soprattutto giovanili (la prima volta era stato nell’alluvione di Firenze del novembre 1966), tornano a essere protagoniste in Friuli nel maggio 1976. Operatori sanitari, volontari, le strutture impegnate nella cura delle fragilità delle persone, come già accade a Seveso, aprono una nuova fase di riflessione e di agenda.
Ora, nel 1976, il tema diventa la qualità della vita, l’attenzione agli effetti che le persone, colpite da catastrofi ambientali e/o territoriali, vivono in forma permanente: danni materiali, traumi emotivi, fine dei legami di comunità, sconquassati dalla portata del disastro.
È il tema che sta al centro della sensibilità che va affermandosi per la composizione di un “quaderno ambiente” in Italia, il primo movimento che assume l’ambiente come parola chiave (sono i temi che propongono Gianfranco Amendola e E. Barbieri nel dicembre 1976). Ancora non si parla di “mondo verde” e “movimenti verdi” ma il primo nucleo operativo e concettuale è nelle pratiche e nelle risposte a quegli eventi che iniziano a prendere forma.
È il tema di come lo Stato debba farsi carico di una unità di intervento che ancora non si chiama “Protezione civile”, ma che trae spunto da quelle forme di partecipazione dal basso (e dalle competenze che quelle realtà di base propongono e praticano) che in Friuli e a Seveso hanno avuto le loro prime esperienze e che immancabilmente tornano a ripresentarsi sulla scena in Irpinia dopo il 23 novembre. Le stesse ancora le rivedremo nel luglio 1987 in Valtellina, per poi non abbandonarci più.
Documento tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
A dimostrazione che il disastro ambientale, dovuto all’incuria, alla speculazione edilizia, non è geograficamente circoscritto, e che una diversa mentalità fondata sull’attenzione al territorio, alla cura di comunità deve iniziare a prendere forma per tutto il Paese. Quella consapevolezza è il primo passo, indispensabile, per pensare a come ritornare, a “non lasciare” il territorio, comunque a essere consapevoli della “ferita” e, perciò, a “pensare” e a “praticare” la “cura”.
Non tutto, ma molto è iniziato in quegli anni ’70, lentamente, dal basso.