a cura di Jacopo Perazzoli


Foto di Mondoperaio del novembre 1969,tratta dalla biblioteca di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli


“15 ottobre 1969: è una data che occuperà certo un posto nei libri di storia americana. Già si cerca il nome più appropriato: il ‘giorno del grande dissenso’, lo ‘sciopero nazionale contro la guerra’”. In effetti, quella giornata sarebbe passata allo storia e non avrebbe occupato un posto di rilievo solo nei libri di storia americana, come ipotizzato da Mario Ciriello, inviato a New York per “La Stampa”.[1]

In quella giornata, centinaia di migliaia di cittadini statunitensi scesero in piazza nelle principali città del Paese per protestare contro la guerra in Vietnam. Per esempio, a Washington vennero organizzate cento diverse iniziative, da momenti di discussione sul conflitto all’ora in corso a una grande marcia notturna guidata dalla vedova di Martin Luther King fino a una sfilata attorno alla Casa Bianca. A New York, oltre all’adesione del sindaco John Lindsay, si udirono invece campane a martello e si tennero nei punti più disparati della città comizi e cortei.

Si trattava di una dimostrazione fortissima della contrarietà degli  americani a una guerra esclusivamente simbolica della Guerra fredda, visto che il conflitto riguardava un teatro geopolitico fisicamente distante dai confini USA in cui si contrapponevano le forze insurrezionali filocomuniste alle forze governative della cosiddetta Repubblica del Vietnam, sostenuta e di fatto difesa dalle truppe regolari dell’esercito statunitense.

Malgrado nell’epoca contemporanea si sia più volte tentato di mettere al bando la guerra, come hanno spiegato in tempi recenti Scott J. Shapiro e Oona A. Hathaway,[2] il ricorso alle operazioni belliche è un’opzione ancor oggi adoperata dai governi per appianare diatribe internazionali, per soddisfare mire neo-egemoniche o, ancor peggio, per risolvere questioni etniche. Se vi è dunque una costante nelle scelte di politica internazionale, è del tutto evidente come le opinioni pubbliche, secondo quanto già avvenuto nel corso del Novecento, possano decidere di non riconoscersi nelle scelte belliciste compiute dai governi. Ne conseguirono, ieri come oggi, dei cortocircuiti in cui il dissenso pareva essere estremamente popolare: in Europa occidentale, fu così, per esempio, all’epoca della guerra contro i Talebani in Afghanistan nel 2001, della seconda guerra del Golfo del 2003. Ma è così anche oggi di fronte alle operazioni anti-curde lanciate da Erdogan al confine tra Turchia e Siria.

Resta da capire se il dissenso possa tradursi in un’azione politica congiunta, capace di fermare l’offensiva. Come scrive Bernardo Valli su Repubblica di oggi, l’azione militare di Erdogan “mette in risalto l’incapacità degli europei a concordare un’azione comune e riduce a frantumati balbettii le dichiarazioni sull’embargo delle armi ai suoi danni”.

In occasione dei cinquant’anni dalle marce contro la guerra in Vietnam del 15 ottobre 1969, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli propone una rassegna di materiali tratta dal suo patrimonio che consente di riflettere sugli impatti delle manifestazioni popolari sulle scelte in politica internazionale dei governi: mentre l’articolo di Mauro Calamandrei, Nixon non dormire, illustra le fondamenta, sociali ancor prima che politiche, su cui vennero organizzate le grandi contestazioni del 15 ottobre 1969, il saggio di Loretta Valtz Mannucci, Nixon, l’establishment e la “maggioranza silenziosa”, pone l’accento sulle difficoltà dell’amministrazione repubblicana nell’intercettare il clima di contrarietà nei confronti del prosieguo delle operazioni militari nell’ex Indocina francese, esortando però l’opinione pubblica dell’epoca a non accontentarsi di una “vietnamizzazione” del conflitto. Come a dire: “non chiudiamo gli occhi qualora gli Stati Uniti decidessero di uscire dal conflitto”.

La rassegna è completata da un articolo di David Bidussa che ragiona sulle difficoltà dell’Europa nell’assumere un ruolo da protagonista nelle diatribe tra stati, malgrado le spinte “dal basso” che provengono da numerosi settori della società europea.

Spinte dal basso che possono essere anche un antidoto ai tentativi di omologazione forzata perseguiti dai nazionalismi, che per loro stessa costituzione – scrive Matteo Albanese – sono sempre alla ricerca del nemico che minaccia l’integrità di un territorio o di una comunità.


[1] M. Ciriello, Gli americani in piazza, “La Stampa”, 16 ottobre 1969.

[2] S. J. Shapiro, O. A. Hathaway, Gli internazionalisti. Come il progetto di bandire la guerra ha cambiato il mondo, Neri Pozza, Udine, 2018.