Di seguito un estratto del saggio di David Harvey “Abstract from the concrete: capitalism a spiralling out of control” tratto dal volume Western capitalism in transition. Global processes, local challenges, a cura di Alberta Andreotti, David Benassi e Yuri Kazepov. Si ringrazia l’autore e l’editore per la gentile concessione. In appendice, due approfondimenti di Rosa Fioravante e Paola Piscitelli, ricercatrici di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per le aree di Innovazione Politica e Città e cittadinanza.
Sorprendentemente, tra il 1900 e il 1999 gli Stati Uniti hanno consumato – secondo i dati della US Geological Survey – 4,500 milioni di tonnellate di cemento (USGS, 2012). Nel 2011 e 2013, la Cina ha consumato intorno ai 4,250 milioni di tonnellate di cemento (USGS, 2013). Nel giro di due anni, la Cina ha usato la stessa quantità di cemento che gli USA hanno consumato nel corso di un intero secolo. Una scala di tale portata è senza precedenti. Nonostante, la popolazione degli Stati Uniti abbiano mostrato un consumo abbondante, quello che è successo in Cina ha dello straordinario in termini di conseguenze ambientali, politiche e sociali. Come è potuto succedere? Sempre meno studiosi e ricercatori si chiedono il perché. Fin dagli anni settanta, abbiamo assistito a una graduale riorganizzazione delle priorità: ci si chiede “come” e “dove”. Il vantaggio è che, focalizzandoci su questi due quesiti, sbrogliamo più facilmente la matassa del problemi e, allo stesso tempo, ci liberiamo dal rischio di affermazioni dogmatiche.
Sappiamo descrivere nel dettaglio come avviene l’incontro tra imprenditori, avvocati, compagnie di costruzione e finanzieri, proprietari terrieri e autorità statali nel lancio di mega progetti che richiedono masse di cemento, portati avanti anche a costo di scatenare le proteste degli abitanti, dei piccoli proprietari sfrattati nelle varie zone della città e dei cittadini in generale.
Prestiamo sempre maggiore attenzione alla dimensione locale. Siamo portati a essere più sensibili alle differenze culturali e ambientali. Il “dove” conta ma può avere effetti perversi: enfatizza il carattere nazionale, un dato che rischia di mascherare il vero volto delle dinamiche che soggiacciono all’inesauribile accumulazione capitalistica e delle conseguenze sociali che produce. L’attenzione al “come e dove” può portarci a perdere totalmente di vista il perché?
Ignoriamo il potere della metateoria basata sui principi invece che servircene come pratica utile in alcuni campi di ricerca.
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In sostanza, il “perché” è molto semplice. L’accumulazione per il bene dell’accumulazione, come detto da Marx, è il nucleo del capitale, tanto quanto la conversione della produzione per il bene della produzione – il che significa sia riversare il cemento ovunque fino quando ne saremo pieni fino al collo, sia dire che ne abbiamo abbastanza di tutto questo e che abbiamo bisogno di cambiare. Dovremmo per lo meno prendere in considerazione la possibilità di scendere dalla macchina capitalistica dell’accumulazione senza fine e senza limiti e pensare a nuovi modelli economici inseguendo orizzonti totalmente diversi. In generale, l’impressione è che il capitalismo non venga considerato una prospettiva accettabile. E che rappresenti una delle cose più terribili dello stato attuale delle cose. I problemi e i processi che ho qui affrontato non vengono discussi e dibattuti nel mondo in cui dovrebbero essere dibattuti e discussi all’interno di quelle istituzioni che invece se ne dovrebbero occupare. Le università negli USA e altrove sono state aziendalizzate, trasformate in bastioni del neoliberismo e della conoscenza dedicata alla perpetuazione dell’accumulazione senza fine del capitale, della crescita senza limiti del capitale; anche se, incorporando innovazione, si suppone che si possano risolvere i problemi, per esempio, dell’ineguaglianza sociale e della degradazione ambientale. Tutto questo può essere rovesciato, certamente, ma al momento le possibilità politiche che ciò avvenga sono piuttosto desolanti.
Allo stesso tempo, è cambiata anche la base politica dei movimenti radicali e per il cambiamento sociale. Il malcontento di oggi, diffuso in molte parti del mondo, sorge da una composizione di classe diversa rispetto a quella che la sinistra ha tradizionalmente sostenuto. La questione della composizione di classe della battaglia politica deve essere affrontata da una diversa prospettiva. La riconfigurazione della classe ha molto a che fare con gli indirizzi dell’urbanizzazione contemporanea. Il benessere viene estratto da quello che Marx chiama “processo di realizzazione”. E tanta parte di quella estrazione di benessere si verifica nel corso della vita di tutti i giorni, tra le strade delle città. Non è per caso, quindi, che molte delle mobilitazioni che abbiamo visto in tempi recenti, come quelle avvenute in Brasile e in Turchia nel 2013, avevano più a che fare con le politiche della realizzazione che con le politiche di produzione. Lo scontento per la qualità della vita urbana scorreva tra queste lotte. Questo è ciò che connota le politica di oggi e dobbiamo farcene carico dal punto di vista della riflessione teoretica, pratica e politica.
Circulation of capital
Dobbiamo capire perché e come il dissenso e lo scontento all’interno della città sia in crescita e perché e come possa rappresentare la sorgente di un movimento politico che abbia al centro l’idea e la volontà di creare città che possano essere degne per viverci e che soddisfino le persone. Al contrario, come abbiamo potuto osservare, siamo più propensi a creare città adatte agli investimenti.
Tutto questo deve essere ribaltato. Non vogliamo solo città che non crescano, nel senso capitalistico del termine, ma città che riconoscano i bisogni sociali, riducano le disuguaglianze e migliorino la qualità dell’ambiente.
Marx riprende da Hegel un concetto interessante. Hegel distingueva una “cattiva infinità” da una “buona infinità”. Quest’ultima è qualcosa che continua a riprodursi uguale a se stessa per sempre. Un cerchio è la descrizione geometrica della “buona infinità”.
Il problema nasce quando il cerchio diventa una spirale. Le cose perdono il controllo. Il capitalismo è una turbine, una spirale fuori controllo. E quella spirale fuori controllo è la rappresentazione del fatto che l’infinità non ha strumenti di contenimento. Semplicemente si muove e cresce ancora, ancora e ancora. Il sistema numerico è una “cattiva infinità”. Per quanto può essere grande un numero, c’è sempre un numero più grande. Non potrà mai arrivare a una conclusione.
Dobbiamo tornare alla “buona infinità”. Marx lo aveva capito molto bene. E lo dice chiaramente in merito alla natura della riproduzione – inteso come riproduzione dell’ordine sociale e come si pensa alla riproduzione. Sia nel primo libro sia nel secondo del Capitale, descrive nel dettaglio l’infinità virtuosa della riproduzione semplice. Il problema sorge nella dimensione su larga scala della riproduzione. La metafora della spirale fuori controllo è molto significativa rispetto a ciò che succede localmente e globalmente. Fino a che possiamo trovare significati al governo dell’accumulazione senza fine per il bene dell’accumulazione, qualsiasi aggiustamento o tentativo di fare qualcosa di buono sarà marginale e non porterà ad alcuna differenza rispetto all’enorme problema macroeconomico.
Per questo motivo la prospettiva anti-capitalista rimane cruciale per la definizione del problema dell’urbanizzazione dei giorni nostri e della fenomenologia del capitalismo in trasformazione.
Sulle conseguenze del Capitalismo, guarda il video della conferenza di David Harvey, in dialogo con Nancy Fraser, alla University of New York, nel 2017
di Rosa Fioravante, ricercatrice dell’area Innovazione PoliticaC’era una volta la divisione nord/sud del mondo. Poi, una volta crollata quella fra est e ovest, la globalizzazione neoliberista ha prodotto dove non c’era e aggravato dove era già presente una nuova forma di diseguaglianza: quella fra centro e periferia. Così, Harvey ci ricorda persistentemente che nella critica dell’attuale modello capitalista – quello virtuale, finanziarizzato, immateriale per eccellenza – la geografia conta e non poco. Non l’uomo, come sosteneva Protagora, ma la logistica è la nuova misura del mondo. Lo sosteneva anche Bauman, il quale, attraverso la sua analisi delle élites, ammoniva che esse si caratterizzano, fra gli altri privilegi, per uno in particolare: il lusso di essere completamente slegati dal territorio, così che non faccia alcuna differenza dove queste persone abitano, lavorano, operano e in generale non hanno difficoltà a fare tutte queste cose in luoghi distantissimi fra loro. È così che si concentrano capitale e potere: drenando risorse dalle aree circostanti quella urbana e, una volta accumulatesi, una volta innescato il meccanismo di riproduzione del capitale su capitale senza legami con l’economia reale e lo sviluppo sociale, esse finiscono nelle mani di pochi che si autonomizzano da qualunque forma di legame territoriale e comunitario. Le decisioni prese da questo esiguo numero di detentori del potere, sovrani della geografia, valgono tuttavia erga omnes, ricadono su tutti coloro che non partecipano al processo decisionale e così tengono in scacco le democrazie che, con Colin Crouch, diventano Post-Democrazie. Se questo sistema non fosse immorale al punto da essere criticato persino da Papa Francesco, se non fosse malfunzionante al punto da scatenare una crisi economica mondiale non ancora sanata come quella del 2008, sarebbe comunque destinato all’esaurimento: il Capitalismo può essere forse infinito, la Terra non lo è. Così, il passaggio dal “ciclo”, che rimanda alla dimensione naturale, alla “spirale”, metafora viziosa di ossessione e compulsione, per Harvey è il punto di non ritorno dal quale ripartire per invertire la rotta di una costruzione sociale ormai inservibile agli scopi di armonia nella convivenza umana e di benessere. Ancor più rilevante è tuttavia il passaggio metodologico nel quale si sottolinea che più urgente del “dove” e del “chi” è la domanda sul “perché” queste dinamiche si inneschino e perpetuino. Infatti, è questa la domanda più Politica, se intendiamo la Politica come architettura del vivere comune: il “perché” implica un’analisi sul governo dei processi, sul come scioglierne le contraddizioni e i conflitti. La grande Politica su questo terreno può misurarsi col Capitalismo, lontanissima dalla piccola politica che spesso al contrario i processi li subisce rinunciando a qualunque vocazione trasformativa dello status quo._______________________________
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di Paola Piscitelli, ricercatrice dell’area Città e cittadinanza
C’era una volta la città, forma artificiale di convivenza umana basata sul principio che la vicinanza, la concentrazione e lo scambio portassero più vantaggi dei loro contrari. E c’era una volta il capitalismo, che per coloro i quali sostengono esista da sempre, deriva dal bisogno naturale di migliorare le proprie condizioni di vita, anche a discapito degli altri. Poi, qualcuno ha scoperto che erano strettamente allacciati. L’analisi dell’interazione tra città e capitalismo – che non si limita a riconoscere che ci siano connessioni tra i due elementi ma spiega come la prima sia prodotto del secondo – è una acquisizione relativamente recente. Relativamente, perché è dalla fine degli ’60 che la ‘nuova sociologia urbana’ e la ‘geografia radicale’ di Harvey, Lefebvre e Castells prima, le teorie della città globale di Friedmann, Peter Smith, Sassen e Taylor poi, e, più recentemente, l’’urban neoliberalism’ di Smith, Brenner, Jessop e Peck ci spiegano come capitalismo, globalizzazione e neoliberismo trovino nelle città motore e sfogo.
Insomma, sappiamo come funziona, eppure il meccanismo mutualmente riproduttivo tra città e capitalismo si reitera a oltranza, generando spazi sempre più estesi, nuovi, numerosi, ma anche sempre più simili, ovunque basati su consumo, mercificazione e speculazione. Le maggiori metropoli globali oggi situate al posto di vecchi villaggi e paesini asiatici, orientali e africani inseguono i miraggi di crescita economica prospettati dalle potenze occidentali, che pure hanno mostrato abbondantemente falle e crisi. Le forze del capitalismo sono più dirompenti e abbaglianti e davanti alla crescita, la distribuzione sproporzianata di risorse, la proliferazione di ghetti e baraccopoli, l’aumento della disparità sociale, l’impoverimento della classe medie, la questione ambientale e il cambiamento climatico sembrano passare in secondo piano.
La buona notizia è che le città, se vogliono, sanno ribellarsi, recuperando l’antico principio del valore dell’unione e del confronto. Tutti i più recenti ,movimenti, da le Primavere Arabe, Occupy Wall Street, Gezi Park alla rinascita dei beni comuni hanno trovato nelle città non soltanto il proprio detonatore, ma anche il teatro possibile di progetti di emancipazione sociale da reclamare e realizzare attivamente.
Riformare la teoria urbana oggi significa ripensare le possibilità concrete d’azione nelle e a partire dalle città. Tornare al perché, come insiste Harvey, serve a ripensare il come, non solo il come accade, ma il come si può cambiare. Così, se il capitalismo è il problema, le città possono essere (parte del)la risposta. Campo intermedio tra società e stato, consentono infatti di collegare visioni ispirate alle forme di organizzazione e risposta dal basso alle strategie di garanzia dei diritti universali, sociali e democratici provenienti dall’alto. Di trovare i modi per domare il capitalismo rendendolo più erodibile e di erodere il capitalismo rendendolo più docile, per dirla con Olin Wright. Di avere quel laboratorio necessario, possibile, utilizzabile per realizzare l’utopia.
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