Il calendario civile europeo come strumento di convivenza per superare i conflitti
«Perché pesa così poco, nella costruzione delle nostre identità collettive, il sentirsi “europei”? Non sarà che l’identità europea si conquista con una dose di consapevolezza che passa attraverso la cultura? Non sarà che c’è di nuovo bisogno di studiare la storia?».
A fine 2019, l’editore Donzelli impiegava queste parole per annunciare l’uscita del progetto che portava il titolo di Calendario civile europeo. Curato da Angelo Bolaffi e Guido Crainz, era nato da un’idea del secondo, a partire da una precisa convinzione: che la crisi attuale dell’Europa chiamasse in causa pesanti responsabilità politiche, ma anche responsabilità e inerzie della cultura.
Il terzo appuntamento di History Lab “Il Calendario civile europeo. Ma di quale Europa?” (14 luglio 2022), dopo essere stato aperto da Marcello Flores, non poteva quindi che prendere avvio dalle riflessioni di Crainz. Assieme allo storico, a discutere attorno al tema vi erano Maria Canella, Antonella Salomoni e Maurizio Ridolfi. Il dibattito ha visto poi i contributi di molti altri storici e storiche.
Il precedente incontro si era chiuso con alcuni interrogativi che gettavano un ponte per la riflessione di questo 14 luglio: come pensare al calendario civile affinché possa costituire davvero uno strumento adatto alla proiezione di una visione futura della comunità europea? Come discostarsi da schemi memoriali inadeguati che amplificano le dinamiche di competizione e conflitto tra memorie generatesi nella stessa comunità, irrigidendone i confini e le spaccature interne?
Riprendendo i fili di queste riflessioni, Flores ha aperto così il dibattito ponendo l’attenzione su tre ordini di problemi, che hanno poi guidato i successivi contributi. In primo luogo, riflettere sul calendario civile oggi implica chiamare in causa l’idea stessa di Europa, dunque dei suoi confini fisici, ma anche sociali e culturali, alla luce delle trasformazioni indotte dalle dinamiche di globalizzazione; in secondo luogo, pensare alle date di cui questo calendario verrebbe a comporsi porta inevitabilmente a considerare anche quelle che risulterebbero, invece, escluse ed estromesse; infine, stabilire uno schema di ricorrenze comuni significa interrogarsi su quale criterio si intenda impiegare per la scelta di queste date, se ragionare cioè in termini di giornate condivisibili e pacificate, o identitarie, e quindi più apertamente divisive e conflittuali.
Si tratta di rapporti complessi che, sia per Crainz, sia per Ridolfi, sono stati probabilmente a lungo sottovalutati: stiamo infatti ragionando in termini di calendario civile affinché si possa generare uno strumento che corrisponda alla comunità, intesa nella sua pluralità, da cui è composta l’Europa; tuttavia, non si può dimenticare che altri soggetti stanno andando nella direzione opposta, producendo da un lato “controcalendari”, dall’altro calendari civili nazionali che spingono istanze di tipo identitario in una direzione contraria a quella comunitaria.
In questo senso, secondo Antonella Salomoni, la Polonia rappresenta un caso paradigmatico in relazione sia allo sviluppo della “politica storica” (ripresa poi da altri Paesi dell’Europa orientale) sia ai conflitti di memoria nell’Est Europa in senso più generale. All’interno di questo quadro, la recente fondazione dell’Istituto Roman Dmowski e Ignacy Jan Paderewski per l’eredità del pensiero nazionale polacco (2020) diviene in qualche modo la concretizzazione di un momento di transizione circa le modalità di uso pubblico della storia.
Per Salomoni, infatti, stiamo assistendo a uno slittamento da una fase di “giuridicizzazione della storia” (caratterizzata dalle leggi memoriali) a una di “sequestro della cultura” – per impiegare la formula proposta da Ilya Kalinin per parlare del caso russo – in cui la storia diviene un elemento chiave nelle strategie di sicurezza e contenimento.
A fronte di questo contesto, quale deve essere il ruolo degli storici nel processo di elaborazione di un calendario civile che favorisca il senso di cittadinanza europea?
Per riflettere attorno a questo nodo, Maria Canella si è ricollegata alle considerazioni di Giovanni De Luna (La Repubblica del dolore, Feltrinelli 2011) secondo cui l’unico modo per poter scrivere questo calendario civile da un lato è quello di guardare più alla storia che alla memoria, per recuperare un rapporto con il passato più critico e consapevole; dall’altro, il criterio che deve essere tenuto in considerazione è quello per cui ogni fase storica deve avere il suo rapporto con la storia, ciò significa che relazionarsi a date ed eventi fissati in passato risulta inevitabilmente complesso proprio a fronte dei mutamenti del tempo e, dunque, della trasformazione dei significati che a questi nodi simbolici vengono associati.
È necessario pensare a nuove categorie, adeguate a rappresentare il tempo presente, che possono poi essere approfondite nella grande arena della public history. Recuperando le riflessioni di Serge Noiret, secondo Canella è possibile quindi che il luogo privilegiato per scrivere questo calendario non siano tanto le università, quanto quegli istituti che stanno sotto l’etichetta di MAB (musei, archivi, biblioteche). La figura del public historian può certamente offrirsi come mediatrice; tuttavia, è necessario considerare la possibilità di delegare la scrittura di questo calendario, al fine di produrre una visione che sia unitaria, ma che ugualmente non trascuri la dimensione locale per radicarsi nelle comunità.
Maurizio Ridolfi si è mosso in questa stessa direzione: che si parli o meno di public history, bisognerebbe fare storia senza porsi semplicemente come megafono delle memorie pubbliche; al contrario, diviene importante lavorare su un terreno nuovo, che è quello del fare storie di comunità, generando narrazioni co-costruite che diventino bacino di consenso e discussione, con l’obiettivo di dar vita a calendari civili in cui potersi riconoscere e incontrare.
D’altra parte, per usare le parole di Maurice Halbwachs ne La memoria collettiva: «Non si può raccogliere la totalità degli avvenimenti in un unico quadro che a condizione di separarli dalla memoria dei gruppi che ne custodivano il ricordo, di recidere i legami attraverso cui erano uniti alla vita psicologica degli ambienti dove si erano prodotti e di non conservare che lo schema cronologico spaziale».
Il rischio di provare a immaginare un calendario civile slegato dalle comunità con l’idea di proporre una visione compatta e non conflittuale della memoria è dunque quello di generare un calendario in cui nessuno possa poi davvero riconoscersi e identificarsi.
Se dunque la memoria è per sua natura conflittuale, il ruolo degli storici non può che andare nella direzione di contribuire a renderla polifonica, mostrando il mosaico di voci da cui è composta, spiegando il funzionamento della realtà e allontanando dall’ambito sacrale – dunque demistificando – gli intrecci del ricordo.
È su un diverso piano all’intersezione tra molteplici ambiti disciplinari che si può invece immaginare di pensare a un comune calendario civile: l’accordo, come suggerisce Anna Mastromarino, non dovrebbe basarsi tanto sulla ricerca di una memoria condivisa, quanto sulla concordanza attorno ai fatti e ai valori (per quanto anche quest’ultimi non siano sempre sufficienti, come ha mostrato la mancata ratifica da parte di alcuni degli Stati membri di quello che era stato il progetto di trattato costituzionale dell’Unione Europea). È infatti attorno a un’alleanza di intenti che spingano in una direzione comunitaria – senza per questo cancellare e nascondere i conflitti – che si può pensare di scrivere un calendario civile europeo che parta dalle comunità e in esse rimanga costantemente radicato.