Daron Acemoglu ed Emiliano Brancaccio sono due economisti originali (e in qualche modo “pop”), che non temono di pensare fuori dagli schemi. Nella loro elaborazione intellettuale hanno intrapreso strade diverse, spesso opposte, ma comunque animate da un forte spirito critico verso il fideismo del mercato.
Daron Acemoglu, economista del MIT, appartiene alla corrente del nuovo istituzionalismo, che pone l’enfasi sul ruolo delle istituzioni all’interno del sistema economico. In uno scritto fondamentale di questa linea di pensiero Douglass North definisce le istituzioni come “vincoli ideati dall’uomo che strutturano le interazioni politiche, economiche e sociali”. Per fare un esempio, uno dei risultati più importanti afferente a questa teoria è il teorema di Coase, riguardante i fallimenti del mercato. Esso ha ispirato molte politiche pubbliche, fra cui il protocollo ambientale di Kyoto.
La corrente neoistituzionalista si propone di iniettare realismo nella costruzione altamente teorica ed astratta dell’economia neoclassica. Gli individui non sarebbero più atomi che si relazionano in base al sistema dei prezzi, ma sarebbero legati da norme, convenzioni e tabù. Ci si concentra, ad esempio, sul ruolo dei diritti di proprietà nella formazione del sistema economico, un tema che aveva già affrontato Hegel.
Acemoglu, insieme a Robinson, ha individuato nelle istituzioni la causa fondamentale della crescita nel lungo periodo. Nel suo libro “Perché le nazioni falliscono” sottolinea l’importanza di istituzioni inclusive in grado di sostenere la distruzione creatrice e quindi l’innovazione. Quando un Paese, invece, ha istituzioni estrattive, finalizzate a massimizzare il potere politico ed economico di una ristretta cerchia, il motore della crescita si inceppa.
Quindi, Acemoglu ritiene che il libero mercato non sia un sistema fisico ma sia un output istituzionale e che quindi ci si debba concentrare sulla sua regolamentazione per raggiungere una prosperità inclusiva.
Acemoglu, a volte in contrasto con Thomas Piketty, sottolinea che, seguendo la strada redistributiva, i partiti progressisti sarebbero portati fuori strada. Per due motivi: il primo è che nessuna società ha mai raggiunto la prosperità attraverso la mera redistribuzione delle ricchezze. Il secondo è che questo meccanismo in due tempi rischia di incepparsi. Per Acemoglu è quindi necessario un intervento chirurgico sulle istituzioni che regolano il mercato del lavoro. Questo, se dominato da un approccio laissez faire, tenderebbe ad avere pochi “lavori buoni” (good jobs), ossia lavori ben pagati e stabili necessari per aumentare la produttività e il benessere della società. Per questo Acemoglu sostiene l’aumento del salario minimo orario. A sostegno della sua tesi ha portato inoltre l’esperienza dei partiti socialdemocratici scandinavi. Questi non hanno raggiunto i migliori standard di vita soltanto attraverso una tassazione progressiva, ma grazie a un edificio istituzionale e un welfare state esteso.
Lo stesso approccio laissez faire che Acemoglu critica nel mondo del lavoro porterebbe secondo lui anche alla catastrofe climatica. In un suo studio, scritto tra gli altri con Aghion, costruisce infatti un modello per studiare la risposta ottimale alla crisi climatica. Secondo lo studio, non è solo necessaria una carbon tax, ma anche una serie di interventi pubblici in ricerca e sviluppo per sostenere l’innovazione.
Nell’analisi di Emiliano Brancaccio, professore all’Università del Sannio, vi è un’attenzione particolare agli squilibri strutturali del capitalismo neoliberale. Secondo Brancaccio, per affrontare le crisi ricorrenti del sistema è necessario un deciso cambio di rotta. Le radici dei problemi economici odierni, infatti, sono profonde. Dunque, non bastano palliativi e aggiustamenti al margine.
È interessante, a tal proposito, esaminare la visione di Brancaccio sulla crisi del 2008. Secondo l’economista, essa ha origine nella crescente riduzione dei redditi da lavoro rispetto al Pil nelle economie occidentali. Infatti, i guadagni di produttività nei venti anni precedenti alla recessione sono andati a vantaggio di una parte molto piccola della popolazione, mentre le diseguaglianze sono salite a livelli che non si vedevano dal 1929.
Ma quali sono le cause di queste dinamiche?
Fra Acemoglu e Brancaccio c’è una convergenza nel criticare la riduzione del ruolo dello Stato in economia, lo svuotamento del welfare state e le dinamiche salariali, legislative e occupazionali sfavorevoli ai lavoratori. Tuttavia, Brancaccio mette un forte accento anche sulle criticità generate dalla libertà dei movimenti dei capitali e dall’assetto oligopolistico dei mercati internazionali (che si sta accentuando con la pandemia).
Brancaccio è fortemente critico verso l’approccio adottato in Europa dopo la crisi del 2008. Un approccio improntato all’austerità e al rafforzamento delle politiche neoliberali dei decenni precedenti. Secondo l’economista, tuttavia, non sono sufficienti grandi piani di spesa pubblica per affrontare la crisi. Per risolvere il problema alla radice bisogna mettere in discussione il ruolo dei mercati internazionali dei capitali. È necessario, cioè, tornare a regolare i flussi di capitali per evitare il loro effetto destabilizzante.
Tuttavia, Brancaccio è consapevole che per raggiungere questi obiettivi è necessario un cambiamento dei rapporti di forza fra capitalisti e lavoratori. Dai suoi lavori emerge con chiarezza l’idea che l’economia è sempre politica e deve tenere conto delle dinamiche sociali.
Brancaccio adotta questa visione anche nel suo approccio alla macroeconomia. Nel suo testo dal titolo eloquente (“Anti-Blanchard”) critica il modello neoclassico così com’è descritto nel manuale di Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale. Brancaccio mostra che, cambiando alcune assunzioni alla base dei modelli mainstream e rendendole più vicine alle concrete dinamiche socio-economiche, è possibile raggiungere risultati molto diversi.
Ma la critica di Brancaccio va ancora più a fondo. Lo Stato non si deve limitare a dare regole all’economia e a riportarla sul suo sentiero “naturale”. Egli, infatti, attacca con decisione il concetto di equilibrio naturale dell’economia, uno dei capisaldi dell’approccio neoclassico che limita strutturalmente l’intervento dello Stato a mero “regolatore”. Secondo Brancaccio, invece, lo Stato deve avere un ruolo centrale nell’economia e deve recuperare strumenti di pianificazione. Solo con una vera rivoluzione della politica economica si potrà raggiungere un modello economico più vicino alle esigenze dei lavoratori.
Gli approcci di Brancaccio e Acemoglu hanno punti di contatto, ma anche molte divergenze che rendono le loro visioni strutturalmente differenti. In ogni caso, il pensiero dei due autori mostra con chiarezza che la fede cieca nelle virtù del mercato è ormai un relitto del passato. La sfida è capire che paradigma costruire per il futuro. Anche di questo parleranno martedì 1 giugno, a partire dalle 18:30, nel corso del dibattito organizzato dalla Fondazione Feltrinelli.
*Hanno scritto questo articolo Alessandro Bonetti e Mattia Marasti di Kritica Economica.