“Il pensare il peggio nei negoci [ovvero nelle attività che stiamo conducendo, nei progetti che intendiamo realizzare] guasta molti negotij. Dall’altra parte, le speranze conviene tagliarle per mezzo”.
Così recita l’annotazione 335 che il cardinal Federico Borromeo ha lasciato in un suo manoscritto, una raccolta di pensieri intitolata Miscellanea adnotationum variarum, pubblicata a cura del Gruppo Editoriale Zaccaria, per la Biblioteca Comunale di Milano, Palazzo Sormani, nel 1985. Il cardinal Federico aveva conoscenza scaltrita e profonda delle forme complesse di interazione imposte dalla pratica delle corti, soprattutto di quella pontificia, così come degli spiragli asfittici che alle strategie e alle speranze di ciascuno tocca di vivere, in un caleidoscopio di simulazioni e dissimulazioni, di illusioni e di speranze, molte volte mal riposte.
Come scriveva Michele Benvenga nel suo Proteo Segretario [Proteo, perché “si cangia in tutte le forme della natura”], pubblicato a Bologna nel 1689, il segretario del principe, a corte, doveva essere “liberale”: “Circospetto negl’impegni, disinvolto nelle promesse”, anzi, suggeriva Benvenga, “sia cortese senza concedere: ove nulla dà, mostra dar tutto che puote”. Di fronte alla latitudine delle attese e delle speranze che siffatti comportamenti illusori e cangianti potevano indurre, il cardinal Borromeo aveva operato una sintesi estrema, disegnando due atteggiamenti, per così dire, estremi di fronte alle prove che la vita ci pone davanti: l’uno pessimistico e l’altro ottimistico. A riportare le sue parole nel nostro oggi possiamo trarne qualche beneficio e qualche suggerimento. A ben guardare, i due atteggiamenti delineati dal cardinal Federico indicano, come scelta da abbracciare, un giusto mezzo, prudentemente e razionalmente assunto: il pessimismo, infatti, “guasta i negozi”, e, d’altra parte, un ottimismo fuori dalle righe ‒ si intuisce dalle parole del Borromeo ‒ potrebbe far sperare in risultati che, invece, non si otterranno e, anzi, potrebbero essere contraddetti dagli sviluppi della storia.
Vale osservare che i tragici eventi che dal 19 febbraio hanno investito l’Italia hanno suscitato anche altri atteggiamenti e altre risposte che rimodulano in modo più articolato il pessimismo e l’ottimismo richiamati dal Borromeo nei confronti dei “negozi”.
Alla notizia dei primi contagi si pronunciarono da subito quanti potremmo definire “negazionisti”, pronti a sostenere che l’influenza ogni anno miete più vittime di quelle che l’epidemia da coronavirus avrebbe potuto contare. Le immagini che sono scorse davanti ai nostri occhi tutti i giorni li hanno contraddetti: più di 35 mila sono per ora le vittime da coronavirus. Altro atteggiamento era diffuso soprattutto tra i conduttori di telegiornali e di talk-show: molti di essi erano presi dall’ansia di chiedere a tutti – a scienziati e a politici – quando si sarebbe potuto sperare di “vedere la luce in fondo al tunnel”. Prematuramente, perché a tutt’oggi nessuno lo sa: unico risultato che hanno ottenuto è stato quello di far aumentare l’angoscia negli ascoltatori. Altro atteggiamento, alla fine meschino, è stato quello che per qualche giorno ha imperversato sui nostri schermi, forse al fine di rassicurare gli spettatori più giovani, ovvero sottolineare che la stragrande maggioranza dei deceduti aveva più di ottant’anni, senza far cenno alcuno che fossero persone meritevoli della nostra compassione. Infine ci sono gli “economisti”, ovvero quanti quasi sorvolano sulla pandemia per insistere prevalentemente sulla crisi del Pil nazionale e mondiale. Temo, anzi, che, chiusi nella loro prospettiva, stiano calcolando al centesimo i costi enormi che il Servizio sanitario sta sopportando per affrontare la pandemia. E temo anche che, prima o poi, ne chiederanno conto.
Per il vero i conti sono già stati fatti: per i tamponi, fino al 2 settembre, sono stati spesi 300 milioni di euro, mentre il costo giornaliero di un ricovero in terapia intensiva può variare tra i 3 mila e i 35 mila euro: almeno così ha affermato il 4 settembre, in una intervista all’ANSA, il professor Americo Cicchetti, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Sono venuti alla ribalta delle cronache anche quanti amavano definirsi “sentinelle del diritto”, pronti a criticare fieramente la decretazione d’emergenza a cui faceva ricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e a lanciare proclami contro la “dittatura sanitaria” ormai imperante, ad avviso loro, in Italia. Eppure la presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia è intervenuta, per altra prospettiva e con la consapevolezza provata su di sé di che cosa sia tale malattia, a sottolineare che “la Costituzione non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, ma offre la bussola anche per navigare per l’alto mare aperto nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della collaborazione fra i cittadini”. Dimenticavano, le sentinelle del diritto, che John Locke, riconosciuto tra i padri fondatori del liberalismo, sottolineava il fatto che “I legislatori non sono in condizione di prevedere tutto ciò che può servire per la comunità e provvedervi con la legislazione; e dunque l’esecutore delle leggi, avendo in sua mano il potere, ha per la comune legge di natura il diritto di usarlo, nell’interesse della società, in molti casi in cui la legge locale non dà indicazioni, fino al momento in cui il legislativo non può essere opportunamente convocato a provvedervi” (I due trattati sul governo, II, § 159).
Sommessamente, in tale prospettiva, vale ricordare che la Svezia, il cui governo sul coronavirus ha emanato semplici raccomandazioni, ha raccolto il triste record del tasso di mortalità pro capite più alto al mondo. Comunque, a rafforzare tale critica al predominio anche mediatico esercitato dalla comunicazione scientifica, proprio dal campo della politica si è levata con forza la rivendicazione della centralità, anzi del primato che la politica deve esercitare anche nel tragico frangente dell’emergenza sanitaria. Improvvisamente molti uomini politici si sono scoperti nipotini di Aristotele. Infatti nell’Etica Nicomachea, Aristotele sosteneva che il bene, il bene supremo, deve essere oggetto, meglio, “deve appartenere alla più importante e alla più architettonica” delle scienze. Quale sia questa scienza è presto detto: infatti, per Aristotele,
“questa sembra essere la politica. Essa determina quali scienze sono necessarie nella città e quali ciascuno deve apprendere e sino a che punto. Vediamo infatti che le scienze più onorate si trovano sotto di essa: la strategia, l’economia, e la retorica [in termini attuali: la difesa militare, l’economia e la comunicazione]. Dal momento che essa si serve delle altre scienze pratiche, e inoltre stabilisce che cosa bisogna fare e che cosa evitare, il suo fine potrebbe comprendere quello delle altre, cosicché esso sarebbe il bene umano” (Etica Nicomachea, I, 2 1094a27- 1094b8).
Quindi la politica, come dimensione che per eccellenza si risolve in responsabilità decisionale, si deve avvalere di ogni forma di conoscenza per contrastare i pericoli che vengano a incombere sul “bene umano”. La pandemia attuale ha reso quanto mai importanti tali piani di riflessione, con il mondo dell’economia che ha incalzato le istituzioni per uscire dalla situazione di emergenza, cercando di riappropriarsi di una posizione, fino al 19 febbraio di quest’anno, eminente e superiore al piano stesso della politica e tale da condizionarlo. Tragicamente, da quella data il sapere fondamentale per la vita di ciascuno di noi è diventato quello degli epidemiologi, dei virologi e dei clinici. Al mantra offerto dalle previsioni emanate periodicamente dall’Ocse, dal Fondo monetario internazionale, dalle varie agenzie di rating, dalla Banca centrale europea, da Confindustria, sono subentrati, nella nostra comunicazione mediatica, i bollettini forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal Coronavirus Resource Centre della Johns Hopkins University, e, per quanto riguarda l’Italia, dalla Protezione Civile e dall’Istituto Superiore della Sanità, nonché dal Comitato Tecnico Scientifico.
Per il vero alcuni politici ‒ come il premier Boris Johnson, che ha vissuto la malattia – si sono arresi all’evidenza della necessità di una fortissima azione contro la pandemia. Altri, come Donald Trump o Jair Bolsonaro, continuano a mantenere un atteggiamento spavaldo. Tuttavia, non sono pochi i politici che hanno sostenuto la necessità di dover riprendersi il palcoscenico del processo decisionale. In Italia Matteo Renzi, in un’intervista apparsa su “Avvenire” il 28 marzo, aveva già lanciato l’appello affinché potessero ripartire tutte le attività, scuola compresa; il 1° aprile nell’aula del Senato, dopo l’informativa del Ministro della Salute, Roberto Speranza, Renzi rinforzava la propria posizione: “Come gestire l’emergenza non può essere affidato solo ai virologi. […]. Non facciamo l’errore di lasciare ai tecnici quello che tocca alla politica”. Vale notare che tale atteggiamento resta diffuso anche a livello europeo. Ad esempio, il 26 aprile l’ex ministro delle Finanze della Repubblica Federale Tedesca, e attuale presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble, ha affermato che è sbagliato lasciare tutto nelle mani dei virologi, invitando a “tener conto di tutte le implicazioni economiche, sociali e psicologiche”.
Insomma, la politica, che è pronta a inchinarsi a ogni tipo di outlook o forecast delle varie agenzie economiche, mal sopporta di piegarsi alle istanze della scienza, e rimodula entro una visione ottimistica del futuro un confronto che va fondato sul riconoscimento di una chiara competenza medica. Per il vero, di fronte agli sviluppi che la pandemia testimonia in questi mesi estivi in Italia, la posizione assunta dagli scienziati resta per nulla affatto univoca. Mentre gli epidemiologi, sulla base di modelli matematici, mettono in guardia su una possibile ripresa del virus in autunno, alcuni clinici ribadiscono che la sintomatologia di cui ora soffrono i pazienti si è di molto attenuata rispetto a quella che presentavano nei mesi di marzo e aprile; per contro molti rianimatori sostengono che i nuovi ricoverati nei reparti di terapia intensiva non sono meno gravi di quelli arrivati durante il grande picco primaverile. Tale discrepanza di posizioni – resta ovvio – non fa che aumentare nell’opinione pubblica l’incertezza, col mirabile esito che ciascun cittadino finisce per attagliare il proprio comportamento a quella indicazione che meglio interpreta la sua personale inclinazione all’ottimismo o al realismo. Resta certo, comunque, che l’età media delle persone affette da Covid-19 è diminuita a circa trent’anni, e questo fa sì che l’ospite del virus mostri una maggior resistenza alla aggressione patogena.
Di più, la parola d’ordine che attraversa la nostra penisola dopo Ferragosto è “riaprire la scuola in sicurezza”, come continuamente ripete Lucia Azzolina, ministro della Pubblica Istruzione. È imperativo su cui convengono tutti ‒ uomini politici, scienziati, imprenditori, associazioni, famiglie ‒ consapevoli dell’ineludibile importanza che la scuola ricopre per lo sviluppo di ogni Paese. Eppure, affinché tale obbiettivo sia realizzato, bisognerà ‒ messe da parte inevitabili perplessità ‒ superare non poche difficoltà, e soprattutto colmare i ritardi che per decenni hanno afflitto la scuola, sia in campo edilizio, sia per quanto riguarda gli organici. D’altronde, come suggeriva Federico Borromeo, “le speranze conviene tagliarle per mezzo”, e moltissimi politici, come scriveva Benvenga, sono “disinvolti nelle promesse”.