La storia industriale di Bagnoli, un quartiere della periferia nord-ovest di Napoli situato lungo la costa, copre tutto il ventesimo secolo. Il complesso industriale raggruppava un’industria siderurgica impiantata nel corso del primo decennio del Novecento ed altre di dimensioni inferiori (cemento, amianto, prodotti chimici) installate successivamente. Questo quartiere ha conosciuto un lungo processo di deindustrializzazione che è cominciato all’inizio degli anni ottanta del Novecento e si è concluso definitivamente nel corso del decennio successivo. Bagnoli è un caso che rappresenta in maniera significativa aree industriali che sono sorte come poli di sviluppo in seguito a politiche speciali in contesti che non presentavano una tradizione manifatturiera e un tessuto produttivo, e che hanno conosciuto drammatici processi di dismissione nel corso degli ultimi due decenni del secolo scorso.
Può essere utile collocare Bagnoli al centro di una riflessione pubblica poiché rappresenta un caso paradigmatico da molti punti di vista. Può, infatti, offrire alcune chiavi di lettura per analizzare ed interpretare casi analoghi presenti in aree e parti del paese anche molto differenti. Vari sono gli aspetti che meritano una riflessione in questa direzione. Ne prendiamo in considerazione quattro.
Gli effetti della deindustrializzazione: l’impatto sulla società locale, il dissolversi del sistema dei valori e la frammentazione, le fragilità nei processi di costruzione di una memoria pubblica
Alcune ricerche sociologiche hanno illustrato non solo il cambiamento politico, legato al crollo elettorale del PCI-PDS che il quartiere ha conosciuto nel passaggio verso la deindustrializzazione, ma anche la profonda trasformazione nel sistema dei valori e delle relazioni sociali. La deindustrializzazione frantumava il tessuto sociale e le forme orizzontali di aggregazione favorite dal lavoro in comune (la fiducia, la cooperazione, la reciproca assistenza), che venivano nel giro di poco tempo sostituite dall’individualismo, dalla concorrenza tra lavoratori, dall’interazione verticale tramite i legami della clientela. Anche i luoghi dell’organizzazione del consenso non erano più le sezioni del PCI e i locali della fabbrica, ma i circoli culturali e i centri studi che comunque avevano rapporti più o meno evidenti con i partiti e facevano riferimento a diverse aree politiche
Oltre a ciò, la presa di distanza dalla fabbrica è stata infatti netta e precoce nonostante si sia trattato di un’esperienza straordinaria. Non solamente gli stabilimenti industriali di quest’area avevano dato lavoro, ma essi avevano rappresentato un contributo, riconosciuto da tutti, in termini di identità sociale, di civiltà urbana, di formazione di una cultura del lavoro, di una spinta alla partecipazione alla vita pubblica in una città tra l’altro profondamente segnata dalla presenza criminale camorristica.
Già nella seconda metà degli anni novanta, il quartiere – da parte sua – sembrava manifestare la volontà di allontanarsi dalla gloriosa esperienza industriale, di operare una rottura definitiva con il passato. Dalle ricerche che sono state realizzate emerge una forte discontinuità, una frattura nella memoria e nel ricordo che si riflette nella distanza delle giovani generazioni dalla precedente e non lontana identità del quartiere, la loro indifferenza nei riguardi del passato industriale e operaio di Bagnoli, il silenzio dell’ambiente familiare, l’accelerarsi della rimozione.
La percezione di una memoria fragile, della rimozione di un’esperienza così straordinaria non rappresenta una dimensione unicamente privata. A dispetto della grande notorietà di Bagnoli, del suo essere presente in progetti e dibattiti non è corrisposta una volontà forte nel costruire una memoria pubblica dell’esperienza industriale. Nella rappresentazione pubblica del quartiere si è poco riconosciuta la vocazione industriale del quartiere mentre è prevalsa l’estraneità dell’esperienza industriale alla tradizione e alla storia di quei luoghi. È un aspetto importante capire quanto questa fragilità abbia influito sull’assenza di un trasferimento di questa cultura del lavoro maturata nell’ambito dell’esperienza industriale nelle altre attività produttive come il turismo e la cultura che non hanno conosciuto quello sviluppo industriale necessario per compensare il declino industriale come è avvenuto in altre grandi città industriali come Genova, Torino, Milano.
Bagnoli come realtà duale. Quanto ha pesato la storia del rapporto tra fabbriche e quartiere caratterizzata da un forte conflitto tra industria e ambiente.
L’ampia zona che aveva accolto l’industria, infatti, era una delle più evocate da un’antica tradizione iconografica e letteraria come tra le più belle e suggestive dell’intero Golfo di Napoli. Il quartiere aveva conosciuto a cavallo tra Otto e Novecento un ampio sviluppo del settore turistico fondato sul termalismo e la balneazione. Il carattere controverso della scelta di questo luogo per l’impianto di industrie insalubri ad alto rischio si manifestò fin dalle origini. In realtà la Bagnoli turistica e quella industriale riuscirono a convivere pacificamente fino agli anni Sessanta.
Sebbene la lotta operaia e sindacale s’indirizzasse verso la protezione della salute in fabbrica e l’adozione da parte delle industrie di tecnologie in grado di ridurre l’inquinamento, tra gli anni Sessanta e Settanta iniziava una lunga storia giudiziaria i cui protagonisti erano gruppi di abitanti dei palazzi limitrofi alle industrie e dei proprietari di strutture alberghiere vittime dei fumi e delle polveri sostenuti dalle associazioni per la difesa dell’ambiente (Italia nostra, il WWF, Antonio Iannello). Si trattava di processi civili e penali per i danni causati agli abitanti e alla salute pubblica. La lotta degli abitanti non riuscì a coordinarsi con quella operaia. Queste due forme di protesta crearono un solco profondo tra lavoratori e cittadini. Non esisteva alcuna visione comune tra cittadini e lavoratori, tra abitanti e operai. In breve tempo essa si trasformò in un conflitto aspro e forte tra lavoro ed ambiente, tra una cultura industrialista ed una cultura ambientalista. Queste due culture apparivano irriducibili e inconciliabili. Si è trattato di un conflitto che ha pesato fortemente sulle vicende successive alla fine dell’esperienza industriale.
La rigenerazione dell’area deindustrializzata: la crisi delle politiche pubbliche in Italia e le ragioni del fallimento
Nella prima metà degli anni Novanta, durante la prima giunta del sindaco Antonio Bassolino, Bagnoli è stata oggetto di una politica urbanistica elaborata negli uffici dell’amministrazione comunale (Variante per la zona occidentale, approvata dal comune di Napoli nel 1996 e riconfermata con l’adozione del Piano regolatore generale del 2004). Essa prevedeva non solo il totale cambio di funzione dell’area, l’apertura del quartiere al mare, la rigenerazione della spiaggia, l’istituzione di due parchi pubblici e la costruzione di un polo destinato al turismo e alla ricerca scientifica, e un basso indice di residenze. La politica di rigenerazione fondata sul cambio di funzione e sul ripristino dei valori ambientali e paesaggistici non solo era in linea con le politiche che in quegli anni venivano adottate in numerose altre aree deindustrializzate degli Stati Uniti e di rilevanti siti dell’Europa Nord-Occidentale – quali, per esempio, il bacino della Ruhr – ma trovava la sua ragione più profonda proprio nei caratteri ambientali e paesaggistici dell’area.
Il progetto, a parte una fase iniziale, non ha incontrato un grande sostegno a Napoli nell’opinione pubblica, nei docenti universitari, negli opinion makers, negli intellettuali, nei media anche se non sono mancate alcune realizzazioni. E qui entra in gioco un altro aspetto. Le difficoltà della politica di rigenerazione per Bagnoli rimandano a una questione più ampia che riguarda il modo in cui si colloca all’interno della più generale questione dell’urbanistica in Italia e della crisi delle politiche pubbliche per il territorio che accompagna la fase neoliberista.
La Variante per Bagnoli faceva parte di un piano di riorganizzazione urbanistica ed ecologica della città di Napoli che si proponeva di affrontare il problema della qualità dell’ambiente e dell’integrità fisica del territorio. All’interno di essa, Bagnoli e tutta la cintura delle colline a nord della città ne divenivano il fulcro, anche grazie alla contemporanea approvazione della Variante di salvaguardia, che sanciva come principio fondamentale “il consumo zero” di suolo. E infatti veniva interdetta ogni edificazione nei quattromila ettari di territorio comunale ancora non costruiti. Anche da questo punto di vista dunque Bagnoli ha rappresentato un’anomalia storica.
E proprio in quanto politica interamente pubblica, decisa negli uffici del Comune e lontano da ogni negoziazione con il privato, sta il motivo per cui già dalla fine degli anni novanta iniziava a essere oggetto di polemica. Non possiamo, d’altra parte, dimenticare che fin dagli anni ottanta l’opera di smantellamento dell’urbanistica aveva accompagnato in Italia la fase neoliberista con l’affermazione, in varie città italiane (Milano, Roma, Salerno), dell’urbanistica contrattata e cioè di politiche urbane frutto della composizione di interessi privati rispetto ai quali il soggetto pubblico aveva la funzione di ratifica. E questo andava incontro a un tendenza politico-culturale dell’Italia repubblicana caratterizzata dalla resistenza a ogni forma di regolazione del territorio e delle risorse che riemerge periodicamente negli organi dello stato, nei partiti politici, nelle burocrazie tecniche.
Il problema delle bonifiche: il carattere europeo di questa problematica, il tema dell’inquinamento e i tempi lunghi della conoscenza scientifica, il ruolo della magistratura
E infine c’è un altro aspetto che è entrato in gioco nella questione Bagnoli e che riguarda il tema della bonifica e della decontaminazione.
E da questo punto di vista la storia di Bagnoli partecipa delle problematiche che da anni investono i 57 siti di interesse nazionale ma anche tutta l’Europa occidentale. Si pensi che secondo quanto afferma l’European Environmental Agency in Europa esistono 340 mila siti potenzialmente contaminati. Né, d’altra parte, i ritardi relativi ai processi di decontaminazione riguardano solo l’Italia bensì l’intera Europa occidentale. Secondo la relazione della Corte dei conti europea del 2013 si evidenziano problematiche comuni.
Innanzitutto la lentezza con cui si stanno realizzando le bonifiche e i progetti di riqualificazione in tutta Europa. L’elevatezza dei costi e la quasi totale impossibilità di applicare il principio “chi inquina paga” per cui gli interventi hanno finito con il gravare sui bilanci nazionali e comunitari. E cioè tutto il problema delle politiche ambientali in relazione all’inquinamento è fortemente legato alla questione della sua conoscenza scientifica, al suo carattere lento e sperimentale, al rapporto con il rischio e la sua percezione, alla ricezione. Il difficile legame tra conoscenze scientifiche, percezione del rischio e regolazione normativa di questo legame. La separazione tra le conoscenze tecnico-scientifiche elaborate nell’ambito igienico-sanitario e il mondo dell’economia, delle imprese, delle attività produttive. Una separazione su cui il pensiero ecologico ha fondato la sua impalcatura teorica e interpretativa.
La storia dell’inquinamento, il rapporto tra inquinati e inquinatori, tra città e industria è stata sempre una storia di conflitti e ha sempre ruotato intorno al tema del controllo sulle emissioni, affidato agli esponenti delle amministrazioni pubbliche: burocrazie tecniche chiamate a intervenire per dirimere questi conflitti, figure da sempre oscillanti tra la tutela dei cittadini e quella dell’occupazione.
Tutta la storia del processo di formazione delle realtà urbano-industriali – la storia dell’inquinamento e delle trasformazioni nel rapporto tra città, industria e risorse naturali – è caratterizzato da un atteggiamento ambiguo, contraddittorio e debole delle amministrazioni pubbliche, tanto che sarà il potere giudiziario a svolgere questa funzione.
In Italia questo ruolo, fin dagli anni settanta, è stato spesso svolto dai pretori d’assalto che, in assenza di una vera e propria legislazione ambientale, si rifacevano alla legislazione civile, ai codici edilizi, alle ordinanze municipali, alla regolamentazione del commercio e dell’industria e alla generale legge di polizia. E non avendo il potere di eliminare le cause del danno hanno finito con il valutarne la legalità. Tutta la vicenda giudiziaria che ha visto coinvolti alcuni dirigenti della Società di trasformazione urbana Bagnoli futura (a cui era stata affidata l’attuazione del progetto di rigenerazione e la realizzazione della bonifica del conflitto) si è conclusa recentemente con la condanna di quattro dirigenti per non aver rispettato a pieno la legge del 2006 e soprattutto non aver elaborato una analisi del rischio. In conclusione, la storia della decontaminazione delle risorse dall’inquinamento ci dice che ci è voluto un tempo molto lungo affinché una società riconoscesse e trattasse i rischi delle sostanze industriali inquinanti. E la dimensione globale mostra che una sostanza inquinante possa diventare un problema acuto anche dopo decenni di regolazione politica e sociale.