Sono passati quattordici anni dal 6 aprile 2009, da quando il terremoto ha segnato un prima e un dopo nella vita degli abitanti della città dell’Aquila e dei suoi dintorni. A seguito di quelle scosse, molte scuole sono state dichiarate inagibili. Studenti, insegnanti e comunità educante hanno dovuto in questi anni adattarsi a fare scuola in strutture provvisorie, aspettando il momento di poter finalmente avere una scuola in muratura. Una scuola “a forma di scuola”.
Ad oggi, soltanto due delle scuole distrutte sono effettivamente state ricostruite, le altre rimangono immobili, con le cartine alle pareti e i fogli sui banchi, come se le lezioni si fossero interrotte solo ieri. Nel frattempo la città si trasforma, gli abitanti si muovono, le vite scorrono e una parte di studentesse e di studenti ha iniziato e terminato il proprio ciclo di studi in una scuola temporanea.
Quattordici anni di precarietà scolastica che effetti stanno producendo? Che cosa significa dal punto di vista materiale e simbolico non aver dato in questi anni priorità alla ricostruzione delle scuole?
Siamo andati a parlarne con chi quotidianamente si occupa di educazione nella frazione di Sassa, nella periferia ovest della città.
Silvia Frezza, insegnante di scuola primaria e parte del movimento “Oltre il MUSP”, ci racconta cosa ha significato per lei, in questi anni, fare scuola in un MUSP (Modulo a Uso Scolastico Provvisorio), «dove non puoi svolgere educazione motoria perché non c’è la palestra; non puoi mangiare in un refettorio ma sul tuo banco; non hai una biblioteca, un’aula magna, nessun laboratorio linguistico, scientifico, artistico.»
Significa entrare ogni giorno in un luogo grigio, a tratti noioso, a cui manca sempre qualcosa, come conferma un gruppo di ragazze e ragazzi della zona, tra i 10 e i 19 anni, a cui abbiamo chiesto di parlarci della loro scuola.
Dopo quattrodici anni di scuola provvisoria, al disagio materiale di dover adattare la didattica e la socialità agli spazi precari dei MUSP si sommano la delusione per le aspettative di cambiamento tradite e la sensazione di costante incertezza che accompagnano la crescita di studentesse e studenti. Diviene importante, in una situazione tanto delicata, approfondire che cosa questo significhi nella vita di ciascun giovane. Quanto la disparità di opportunità causata dal carattere provvisorio di queste scuole condizioni il presente e, ancor più, il futuro delle ragazze e dei ragazzi aquilani.
Domenico Capanna, coordinatore del Punto Luce L’Aquila – Appstart Onlus, ci parla degli effetti di questa esperienza scolastica incerta, incompleta.
È lui a evidenziare quanto la mancata attenzione rispetto alle necessità delle persone giovani nel processo di ricostruzione, lo scarso interesse da parte delle varie Amministrazioni nell’immaginare spazi dedicati all’educazione e alla vita sociale, stiano accrescendo le dinamiche di malessere e auto-esclusione. Se infatti le giovani generazioni si trovano globalmente ad affrontare criticità legate alla pandemia e a tutti i suoi effetti, o più in generale all’incertezza rispetto al domani, a L’Aquila queste si sommano al dover crescere nella precarietà di una città in ricostruzione.
Senza un’attenzione specifica e senza l’attivazione di percorsi educativi che si facciano carico di fornire gli strumenti per affrontare una situazione così complessa, il rischio è che anche la scuola contribuisca ad aggravare le condizioni di disagio, soprattutto per chi è particolarmente fragile.
La scuola, invece, che riesce a essere spazio fisico e immateriale dove coltivare pratiche di ascolto e partecipazione, rappresenta davvero l’occasione di fare la differenza nella costruzione del futuro di ciascuna bambina, bambino, ragazza o ragazzo. La dimensione dell’immaginazione, l’idea di poter frequentare o insegnare in uno spazio nuovo, ha in questi anni tenuto insieme le comunità locali. Cittadini e parti differenti della società civile hanno dato vita ad azioni partecipative che, attorno alla scuola come centro di comunità, componevano un’idea di città.
A raccontarci una di queste esperienze partecipative è Silvia Frezza.
L’attivazione spontanea e la collaborazione dal basso si sono però scontrate negli anni con la disillusione data dal tempo trascorso senza nessuna certezza di un cambiamento. Come Silvia Frezza ci fa notare, ai diversi proclami – spesso proprio in occasione del 6 aprile – alle diverse pose di prime pietre per la costruzione di nuove scuole, non si è mai dato seguito. Non sono mai arrivate le seconde pietre. Se per gli adulti continuare a lottare diventa sempre più faticoso, tra ragazze e ragazzi c’è chi spera di poter frequentare una scuola ricostruita ma non ci crede fino in fondo, chi pensa che magari suo fratello potrà andare in una scuola in muratura e chi invece una scuola diversa dal MUSP non riesce nemmeno a immaginarla.
A un gruppo di ragazze e ragazzi, allora, abbiamo chiesto come vorrebbero la propria scuola e se pensano di frequentare in futuro una scuola ricostruita.
Nella ricostruzione di una città, non è accettabile lasciare indietro le scuole. Le competenze sono molte, le fonti di finanziamento anche, le amministrazioni a vari livelli si sono passate il testimone nel processo di ricostruzione. Le colpe di così tanti ritardi vanno certamente cercate. Certamente, ma restano i fatti, e il fatto è che la scuola non è stata, e tutt’ora non è, una priorità nella ricostruzione dell’Aquila così come nella nostra società.
Se però la scuola è il luogo dove apprendiamo la socialità, dove impariamo ad essere cittadini attivi, che tipo di futuro possiamo immaginare dimenticando le scuole?