«Crisi è quel momento in cui il vecchio muore ed il nuovo stenta a nascere» scriveva Antonio Gramsci negli anni Trenta del secolo scorso. Questa lezione è importante e calzante anche in riferimento all’evoluzione dei modelli di partito.
Spesso si sente dire o si legge che i partiti sono attori della democrazia in crisi, laddove si intende che ad essere in crisi sono i partiti e, di conseguenza, ne risulta compromesso anche l’ordine democratico. Il punto è che ad essere in crisi è un tipo o un modello di partito, non il partito in quanto attore politico sic et simpliciter. Da un punto di vista organizzativo, il modello di partito prevalente nel secolo scorso era il partito di massa e siamo, pertanto, abituati a valutare e giudicare le varie esperienze partitiche partendo da questo riferimento “idealtipico”. Per questa principale ragione spesso si sostiene che il partito è in crisi o che addirittura non c’è più. Tuttavia, se si afferma che ad essere in crisi o a non esserci più è quel determinato tipo di partito, la crisi si circoscrive e si mette meglio a fuoco il tema. Parafrasando Gramsci, il vecchio partito di massa non esiste più così come siamo stati abituati a conoscerlo e riconoscerlo nelle sue manifestazioni, ma il nuovo tipo di partito (o forse sarebbe meglio dire i nuovi tipi, al plurale) stentano a stagliarsi sulla scena politica. Il tema o meglio la domanda a questo punto è dunque: perché le nuove imprese politiche non hanno più la carica, la forza e la potenza di quelle “vecchie”?
Per rispondere a questo interrogativo, bisogna guardare, per contrasto, a quegli esperimenti politici ben riusciti. E farlo analizzandoli in una prospettiva organizzativa. Infatti, le nuove imprese politiche di successo sono quelle che hanno adattato al meglio il loro modello al mutamento sociale in corso. Il rischio di isomorfismo con una società che secondo molti è peggiore di quella nella quale era immerso il partito di massa c’è e non è, valutativamente parlando, del tutto auspicabile. Ma se manteniamo il dovuto distacco e una buona dose di avalutatività, notiamo che i partiti resilienti sono proprio quelli che rispondono ai nuovi bisogni della società, come ad esempio l’utilizzo di internet, il minore tempo di partecipazione da dedicare alla militanza, ma, al contempo, la volontà di essere presenti comunque nei vari processi di decison-making.
Il partito politico oggi si trova ad avere infatti gli stessi compiti di quello di ieri e fra gli altri, quello di strutturare le domande provenienti dalla società civile, di organizzarle, di selezionare ed eleggere i candidati, di incidere sulla e nella realtà. Dunque, ciò che dovrebbe essere differente dal passato è il come assolve ai suoi compiti, il metodo e non la sostanza. Fermo restando che i partiti sono prima di tutto organizzazioni, il cambiamento dovrebbe intervenire più che nella cultura politica di ognuno, che sembra, nella maggior parte dei casi, rispondere ai mutamenti sociali in maniera più reattiva di altre dimensioni, soprattutto sulla strategia, ovvero su quell’insieme di pratiche, tattiche e tecniche che consentono all’attore partitico di condurre avanti la sua organizzazione e di traghettare di conseguenza la sua propria cultura politica.
Crisi è quel momento in cui il vecchio muore ed il nuovo stenta a nascere, Antonio Gramsci, primi anni ’30
Gli elementi che risultano caratterizzanti a tal proposito sono essenzialmente due: il populismo e il web, che si possono sintetizzare in uno solo con le dovute cautele: il tecno-populismo. Se per populismo intendiamo un modo di costruzione del Politico, il tecno-populismo, ci indica il mezzo attraverso il quale una tale opera andrebbe compiuta. D’altronde il digitale non è solo una sfida, ma anche un’opportunità. Ad ogni modo, non si sta sostenendo che questa strategia sia la più auspicabile e la più condivisibile, ma di fatto è quella che riesce meglio. Per non cedere al puro cinismo, si potrebbe sostenere di integrare questo tipo di strategia con le pratiche tradizionali, spingendo dunque per un nuovo e rinnovato radicamento territoriale degli attori politici e per un reale e più ampio coinvolgimento della base nei processi decisionali non solo online ma anche riportando in voga e in auge i momenti assembleari e congressuali che nella vecchia stagione i partiti hanno vissuto.
Manifesto di propaganda democristiana, primi anni ’50
Pur non sapendo rispondere con decisione al dilemma sulla nascita cronologica dell’uovo o della gallina, possiamo continuare ad interrogarci se sia meglio intervenire per cambiare per prima la società, che a sua volta può essere in grado di dare vita a nuovi partiti politici, o se impegnarsi nella costruzione di un nuovo partito per intervenire secondariamente e con questo mezzo per un reale e migliorativo cambiamento sociale. Tuttavia, dobbiamo riconoscere soprattutto che la pratica dell’analisi scientifica e dello studio teorico sono i sicuri punti di partenza e le più salde ancore per compiere soggettivamente e/o collettivamente la scelta che si ritiene migliore.