Se le macchine sanno fare tutto cosa resta agli umani?”. Questa è la domanda posta da Moshe Vardi, docente della Rice University, secondo cui entro i prossimi trent’anni i robot potrebbero portare a tassi di disoccupazione superiori al 50%.

La domanda di Vardi segnala un’urgenza: capire come sarà il lavoro di domani, sapendo che il nodo tra automazione e lavoro ci riguarda tutti, senza distinzioni.

La prima cosa da fare, dunque, è farsi carico di un fenomeno inarrestabile che si presenta con una velocità di sviluppo senza precedenti. Studiarlo, sapendo che oggi l’impatto della tecnologia sul futuro del lavoro è al centro di due narrazioni opposte. Una tecno-utopista che guarda a un futuro in cui l’occupazione umana perderà il suo ruolo fondante e tutti potranno godere di maggiore tempo libero; e una preoccupata che mette in guardia dal rischio di una disoccupazione di massa in cui una ristretta oligarchia di lavoratori iperqualificati si arricchirà a danno di una moltitudine impoverita.

Quale spazio di ricerca, di dibattitto e di intervento si apre tra queste due visioni contrapposte? A dispetto di ogni determinismo tecnologico, siamo convinti che la realtà sia più complessa. Per capire quale sarà il futuro del lavoro, su cui in larga parte si gioca anche il futuro dell’Europa, non basta guardare alla tecnologia: occorre ricondurla all’attività umana, alle forze sociali che orientano la politica, alla politica nel suo rapporto con l’economia e all’economia nel suo orizzonte geopolitico e globale.

Adottando l’espressione “Jobless Society” intendiamo assumerci questo impegno: interrogarci sul futuro dell’occupazione umana, convocare tutti i soggetti coinvolti da questa trasformazione – lavoratori ed esponenti del tessuto imprenditoriale, parti sociali e protagonisti dell’innovazione; istituzioni e policy maker – non tanto per speculare sulla possibile “fine del lavoro”, ma per dotarci degli strumenti necessari al governo, il più possibile equo e sostenibile, della rivoluzione 4.0.

Le sfide poste dalla quarta rivoluzione industriale – dalla robotica, dall’intelligenza artificiale, dai big data e da tutte le tecnologie del digitale – alimentano attese e inquietudini. Da un lato la speranza di poter finalmente abbandonare le occupazioni più faticose e routinarie per lasciare che se ne occupino i robot. Dall’altra la preoccupazione che le macchine sostituiscano gli umani anche in attività professionali più sofisticate. Da un lato la convinzione che le nuove tecnologie possano migliorare la qualità della vita delle persone, dall’altra i rischi in termini di privacy, sicurezza e sovranità a vantaggio delle piattaforme digitali.

In questa trasformazione epocale, che ne è oggi del lavoro inteso come terreno di espressione dell’identità umana e come spazio di incontro e partecipazione? È ancora sul lavoro, come vorrebbe l’articolo 1 della nostra Costituzione, che si fonda il nostro patto di cittadinanza? E cosa accade, non solo sul piano dell’autosufficienza economica ma anche a livello di agency e rappresentanza politica, a chi ne resta escluso?

Queste prime domande aprono due ulteriori livelli di indagine e d’azione.

In primo luogo, il piano individuale della crescita, della formazione, della realizzazione di sé.  Se crediamo che il lavoro sia ancora una dimensione in cui si gioca la creatività umana, il talento individuale, il gesto ideativo e corporeo che disegna anche l’occasione per far incontrare saperi, intelligenze, sensibilità, ciascuno di noi ha una precisa responsabilità: farsi interprete di una nuova cultura della formazione che ci solleciti all’aggiornamento costante. Se nel prossimo futuro il lavoro umano conserverà una sua specificità – si parla di problem solving, pensiero critico, creatività, decision making, intelligenza emotiva – la sfida cui oggi siamo chiamati è dare forma nuova alle competenze che abbiamo, innovarne il repertorio, dar loro una funzione inedita, così da inaugurare nuovi orizzonti professionali, nuove forme di organizzazione del lavoro, nuovi modelli d’impresa.

In secondo luogo, però, oltre l’impegno individuale siamo chiamati ad assumerci una responsabilità collettiva. Qualunque sia lo scenario – anche quello più preoccupato – resta la necessità di costruire un legame sociale, un patto tra individui in cui il senso di futuro è dato anche dalla capacità includere, dalla volontà di farsi carico di chi rischia di essere espulso dal mercato del lavoro o di restarne ai margini.

Le competenze e la formazione, i campi di applicazione e le nuove frontiere dell’innovazione, dunque. Ma anche i modelli economici alternativi e le nuove forme di protezione e coesione sociale. Il nostro modo di essere lavoratori, quindi. Ma anche di esercitare, attraverso il lavoro o nell’attrito con la sua assenza, le nostre prerogative di cittadinanza.

Lo spettro delle questioni in gioco è ampio e la portata è radicale. Per questo ci diamo appuntamento alla seconda edizione del Jobless Society Forum che si terrà il prossimo 30 maggio. “Digitale”, “partecipazione”, “diritti”, “creatività”, “competenze” saranno alcune delle parole che animeranno l’edizione di quest’anno, il cui titolo sarà “Altri lavori”.

“Jobless society” e “Altri lavori”: due concetti in contraddizione? Crediamo di no. Come si diceva, non ci interessa la “futurologia”. L’apparente frizione, tra una società sempre più “jobless” e il titolo “Altri lavori”, risponde a un’intenzione precisa: convocare la ricerca, le parti sociali, i protagonisti del lavoro, il mondo delle imprese e i policy maker per anticipare scenari e immaginare soluzioni e alternative possibili in base alle tendenze economiche, politiche e sociali del presente.

Quali reazioni, quali sperimentazioni, quali esperienze concrete si stanno sviluppando negli interstizi generati dalla discontinuità della rivoluzione 4.0? Le pratiche sembrano oggi più avanzate delle teorie, già qualche passo oltre l’immediato presente, alla ricerca di risposte e soluzioni per un futuro possibile.

Consapevoli del lungo cammino da cui proveniamo, guardiamo a queste esperienze di anticipazione e di avanguardia, per provare a tratteggiare insieme i contorni della società di domani.

 

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