Ricercatrice Osservatorio su Idee e Pratiche per un Futuro Sostenibile di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Partecipanti


Alberto Majocchi (Università degli Studi di Pavia), Lorenzo Sacconi (Università degli Studi di Milano), Sabina Ratti (Alleanza per o Sviluppo Sostenibile), Luca Carra (giornalista, Scienze in Rete), Nicolò Giangrande (Università degli Studi di Salerno), Niccolò Donati (Università degli Studi di Milano), Massimo Amato (Università Bocconi), Marina Trentin (Fondazione Feltrinelli)

 


1. Confini strutturali


1.1 Globalizzazione, disparità e impatto ambientale

 

Il processo di globalizzazione è stato promosso principalmente dagli sviluppi tecnologici nei settori dell’informatica e dei trasporti ed è stato sostenuto da una larga diffusione delle tecnologie mature, che ha consentito ai sistemi economici dotati di una sovrabbondante offerta di manodopera di diventare competitivi anche nella produzione industriale. In questo modo la globalizzazione ha permesso a molti Paesi di avviare un processo accelerato di sviluppo economico. Tuttavia, la diffusione della tecnologia non sarebbe stata in grado di sostenere da sola l’avvio dello sviluppo economico senza un’adeguata disponibilità di capitali, messa a disposizione dalla liberalizzazione del mercato, spostando enormi flussi di risorse da aree caratterizzate da un eccesso di risparmio rispetto agli investimenti verso quelle capaci di assorbire tale surplus. Questo ha consentito di finanziare il livello crescente di investimenti necessario per sostenere il decollo della produzione industriale.

Quali sono le conseguenze del decollo industriale nei Paesi in via di sviluppo? Ne parla Alberto Majocchi.

A partire da questa prima introduzione, Alberto Majocchi, professore di Scienza delle Finanze all’Università degli studi di Pavia, prosegue illustrando come la crescita della produzione industriale nei Paesi in Via di Sviluppo sia riuscita a trovare degli sbocchi adeguati grazie all’apertura dei mercati sostenuta dalla progressiva caduta degli ostacoli al commercio internazionale, promossa dai rounds di negoziati commerciali che si sono succeduti nell’ambito dell’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e il Commercio (GATT). In questo modo si è avviata la redistribuzione delle attività produttive, con una specializzazione dei Paesi in Via di Sviluppo nelle produzioni più tradizionali, mentre le economie più avanzate mantengono il controllo dei mercati nei settori più innovativi.

Una volta riconosciuti questi effetti positivi derivati per tutti i Paesi – inclusi quelli in Via di Sviluppo – da una progressiva liberalizzazione del commercio internazionale, occorre tuttavia prendere in considerazione anche i problemi legati alla crescente integrazione dell’economia mondiale dal punto di vista dell’ambiente e della stabilità dei sistemi economici e sociali coinvolti nel processo di globalizzazione, continua Majocchi.
La crescita del commercio internazionale produce, infatti, effetti ambientali positivi nelle aree che vengono progressivamente integrate nell’economia mondiale se queste si sono dotate di una buona politica ambientale. Viceversa, in territori sprovvisti di efficaci policy per la tutela dell’ambiente, alla crescita della produzione si accompagna il deterioramento delle condizioni ambientali, non solo a livello locale o regionale ma altresì a livello globale, a causa dell’uso eccessivo delle risorse naturali, dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua, dell’aumento delle quantità di rifiuti prodotti e in particolare a causa della crescita incontrollata delle emissioni di CO2, che ha reso drammatico il rischio di cambiamenti climatici.

È il caso ad, esempio, di ciò che si sta verificando nei territori dell’Amazzonia, in cui, secondo i dati forniti da Greenpeace , il tasso di deforestazione è aumentato del 30% nell’ultimo anno e, tra agosto 2018 e luglio 2019, ha raggiunto il suo picco più alto registrato dal 2008.
Quando si parla di cambiamenti climatici è fondamentale tenere presente che la complessità del quadro di riferimento non ci permette di prescindere da ragionamenti su scale spaziali e cronologiche multiple. Si tratta di un rapporto complesso tra scale diverse che è difficile da leggere e interpretare ma di cui è imprescindibile tenere conto.

 

 

1.2 Competitività del sistema economico e dominio del PIL

 

In questo contesto di economia globalizzata, l’obiettivo prioritario della politica economica diventa quello di garantire la competitività di ogni sistema economico. Accade spesso, tuttavia, che per raggiungere tale obiettivo e garantire al contempo una riduzione dei costi, siano sacrificate le politiche del benessere, sociali e ambientali: il rapido progresso del modello di produzione ha allargato le dimensioni dei mercati su scala universale, mentre la politica che ne governa l’evoluzione, e che dovrebbe stabilirne le regole, è ancora limitata in confini più ristretti, regionali o nazionali. In assenza di un governo dell’economia globale è la legge del più forte che si impone.

Su tale questione, si sono espressi sia Majocchi che Lorenzo Sacconi, professore di Politica Economica dell’Università degli Studi di Milano, ponendo l’accento sulla necessità di misurare il benessere non soltanto in termini di prodotto interno lordo, ma tenendo conto di altri indicatori relativi, ad esempio, alle condizioni di salute e vecchiaia della popolazione, alla riduzione dell’inquinamento, alla sicurezza sociale. In quest’ottica risulta evidente come il benessere generale possa aumentare senza essere necessariamente legato ad una crescita del prodotto interno lordo, disaccoppiando gli indicatori economici dagli indicatori di sviluppo.

L’ardua sfida della politica economica diventa dunque quella di favorire da una parte la competitività della produzione attraverso la crescita della disponibilità di beni e servizi e, dall’altra, di garantire al contempo il miglioramento del grado di protezione sociale e delle condizioni ambientali per l’insieme della popolazione. Per raggiungere questo obiettivo diventa fondamentale ispirarsi ad un modello di sviluppo che sia sostenibile, ovvero, rifacendosi alla definizione proposta nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo dell’ONU, un modello di sviluppo in grado di soddisfare le necessità delle attuali generazioni senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare le proprie.

 


2. Risposte possibili


2.1 La necessità di un approccio multilivello

 

Per raggiungere i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile adottati dai 193 Stati membri delle Nazioni Unite nel 2015, è necessario affrontare la questione in modo globale attraverso un approccio multilivello, come suggerisce Niccolò Donati, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano. Già il Rapporto Brundtland, pubblicato nel 1987 dalla norvegese Gro Harlem Brundtland, allora a capo della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, introduceva la necessità di affrontare il discorso sull’ambiente e lo sviluppo in ottica integrata: Ambiente e sviluppo non sono realtà separate, ma al contrario presentano una stretta connessione. Lo sviluppo non può infatti sussistere se le risorse ambientali sono in via di deterioramento, così come l’ambiente non può essere protetto se la crescita non considera l’importanza anche economica del fattore ambientale. Si tratta, in breve, di problemi reciprocamente legati in un complesso sistema di causa ed effetto, che non possono essere affrontati separatamente, da singole istituzioni e con politiche frammentarie. Un mondo in cui la povertà sia endemica sarà sempre esposto a catastrofi ecologiche d’altro genere.

 

Emerge quindi già nel 1987 quanto sia fondamentale affrontare tali questioni attraverso una governance multilivello che consideri i diversi attori coinvolti. Esempio e applicazione di ciò è l’esperienza portata da Nicolò Giangrande, ricercatore dell’Università degli Studi del Salento, che porta un’esperienza accademica come professore presso la Facoltà dell’Amazzonia Occidentale (FAAO), un’istituzione universitaria brasiliana che si trova a Rio Branco, capitale dello stato dell’Acre. Più nello specifico, la Cátedra Barão do Rio Branco della FAAO ha l’obiettivo di analizzare le sfide e le opportunità dell’Amazzonia nell’attuale quadro di globalizzazione attraverso un programma internazionale composto da un corso dedicato e da una conferenza. Nel 2019 il tema della Cátedra, che si rivolge ad una variegata platea di studenti, è stato proprio lo “Sviluppo Sostenibile in Amazzonia”, affrontato da un punto di vista teorico e pratico.

Oltre a imprese, istituzioni, e al mondo accademico e della ricerca, anche l’arte può svolgere un ruolo importante nelle sfide poste dagli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Ne è un esempio l’impegno dell’artista e attivista francese Philippe Echaroux, che con il progetto The Blood Forest – Street Art 2.0, cerca di dare il suo contributo alla sensibilizzazione riguardo il delicato tema della deforestazione dell’Amazzonia immortalando il volto di alcuni indigeni amazzonici e proiettando questi scatti sugli alberi della foresta. In questo modo permette di comprendere come la vita di questo popolo sia davvero un unicum con ciò che lo circonda: per ogni albero in meno le possibilità che le tribù native possano continuare a vivere lì si fanno più rade.

 

 

2.2 Il ruolo del privato

 

L’esperienza della FAAO evidenzia anche la funzione svolta dal settore privato nella promozione di politiche a favore della sostenibilità, sociale e ambientale.

La conferenza internazionale, che si è svolta il 23 agosto nel teatro della FAAO, si è infatti focalizzata sulla “Condotta d’Impresa Responsabile in Brasile e nella regione amazzonica” e ha rappresentato l’evento di chiusura della Cátedra, vedendo il coinvolgimento di relatori provenienti da enti e livelli di governance differenti. Il confronto ha raccolto rappresentanti dell’Unione Europea, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), di due ministeri federali brasiliani (Economia e Diritti Umani), di quattro università (FAAO, Brasile; Università del Salento, Italia; Pontificia Università Cattolica del Paraná, Brasile; Università di Monterrey, Messico), e di una organizzazione della società civile (Conectas), oltre che delle massime autorità statali e locali, il Governatore dello Stato dell’Acre e la Sindaca di Rio Branco.

Gli interventi hanno contribuito a delineare un complesso quadro in cui diventa determinante, da un lato, la cooperazione tra università, istituzioni, imprese e società civile e, dall’altro, l’adattamento a scala amazzonica di principi e norme internazionali.

Più in generale, affinché le imprese adottino sempre più un impegno verso l’attore pubblico in ottica di sostenibilità, è fondamentale che siano consapevoli dei vantaggi in termini di competitività derivanti dal suo perseguimento. Come afferma Massimo Amato, professore dell’Università Bocconi, è necessario ripensare il rapporto tra pubblico e privato perché le imprese siano mosse da un commitment pubblico. È ciò che sostiene anche Lorenzo Sacconi, il quale ribadisce che l’impresa non può perseguire la responsabilità sociale solo per un beneficio che abbia effetto sulla reputazione: è necessario modificarne il purpose. Come sostengono Porter e Van der Linde[1], una stringente regolamentazione ambientale può indurre le imprese ad una maggiore efficienza, nonché a stimolare ed incoraggiare l’innovazione, che a sua volta contribuisce ad aumentare ulteriormente la competitività.

Il passaggio a fonti di energia sostenibili comporta due livelli di costo: quello di adeguamento alla nuova regolamentazione e quello di introduzione dell’innovazione.

Gli autori affermano che i costi risparmiati grazie all’adozione di nuove tecnologie sono più che sufficienti a compensare sia i costi cosiddetti “di compliance”, ovvero di adeguamento alla regolamentazione, sia quelli necessari all’introduzione dell’innovazione. In quest’ottica una regolamentazione adeguata fornisce segnali chiari alle imprese, utili a ridurre o eliminare le inefficienze nello sfruttamento delle risorse, nonché alla possibilità di ridurre l’incertezza degli investimenti ambientali. Inoltre, può stimolare una maggiore coscienza, nei soggetti pubblici e nei cittadini privati, della necessità di migliorare il contesto ambientale, stimolando così la nascita di una domanda specifica rispetto a beni e servizi ambientali.

Un interessante esempio di intervento da parte del privato nel processo di valorizzazione di beni comuni è quello del Bosco in Città, citato da Luigi Carra, giornalista direttore di Scienzainrete. Negli anni ‘70 il Comune di Milano, con i sindaci Aniasi e Tonioli, fece la scommessa di creare un’estesa area che mobilitasse il volontariato partendo dal privato sociale. Si tratta di un’esperienza di successo in cui il privato, incaricandosi dell’esternalizzazione della gestione di un ampio spazio di verde pubblico, ha espresso livelli non solo di efficienza ed economicità, ma anche di efficacia nel costruire un verde urbano di qualità a servizio dei cittadini e del loro benessere. L’esperienza del Bosco in città risulta inoltre esempio di come i cosiddetti “beni pubblici” siano da intendersi come rispondenti non solo agli interessi di tutti, rischiando di essere considerati di nessuno, ma anche a interessi di categorie di stakeholders che usano il valore dei beni comuni per investirci: le abitazioni nei pressi del Bosco in Città, infatti, hanno aumentato considerevolmente il loro valore.

 


[1] Porter, Michael E., and Claas van der Linde. 1995. “Toward a New Conception of the Environment-Competitiveness Relationship.” Journal of Economic Perspectives, 9 (4): 97-118.

 

 

 

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