L’educazione è il supporto a chi cresce affinché trovi il suo posto nel mondo ma è anche il contributo alla creazione del tipo di mondo che vogliamo; non lascia segni solo sulla storia di una persona, ma sulla Storia di tutti. L’educazione è politica: sfida le condizioni biologiche e storiche dell’attualità e plasma il vivere comune. È un potente mezzo di trasformazione e dunque richiede grande senso di responsabilità, che fa da argine al potere egoistico dei singoli, dei gruppi, delle generazioni.
Ogni modello educativo si fonda su un’idea di maturità da raggiungere, dell’individuo e della società. Nella seconda metà del secolo scorso Winnicott (1965) descriveva la sua condivisibile idea di adulto maturo: colui che è capace di identificarsi con la società senza un sacrificio troppo grande della spontaneità personale; oppure, inversamente, che è capace di badare ai suoi bisogni personali senza essere antisociale ed anzi senza mancare di assumersi una certa responsabilità per conservare la società così come è o per modificarla. È l’ambiente a presentare il mondo all’infante e a spingerlo verso la compiacenza o l’autenticità creativa, anche se nessuno è totalmente passivo: tuttavia perfino un individuo sano può incontrare una tensione sociale che trascende le sue capacità di sopportazione.
Chi educa, dunque, ha potere: può accadere che l’educatore si avvicini all’educando usando il suo potere per dominarlo o – come scriveva Tolstoj – si comporti “come la mano rozza di uno che, desiderando aiutare un fiore a fiorire, si mettesse a schiudere i suoi petali e lo sgualcisse tutto”. È Vygoskij a citare il romanziere russo (1934, tr. it. 1990, p. 205), sottolineando che però lo sviluppo umano non è naturale come il dischiudersi di un fiore, ma storico dall’inizio alla fine e prevede un delicato e costante processo di accompagnamento.
È di nuovo Winnicott, infine, a chiarire che “il procedimento dell’assistenza infantile (…) è qualcosa che non può essere fatto intellettualmente, né in modo meccanico, ma soltanto mediante il continuo interessamento di un essere umano coerente con sé stesso. Qui non si tratta di perfezione. La perfezione è propria delle macchine: ciò di cui invece l’infante ha bisogno è proprio quello che di solito riceve: le cure e l’attenzione di una persona che sia sempre sé stessa” (tr. it. 1970, p. 109).
Come educare allora all’interno di una società iperveloce e ipercomplessa, automatica, con adulti fragili, in contesti di marginalità, con un sistema scolastico dispersivo? E quali risorse abbiamo a disposizione per una trasformazione educativa condivisa?
UNA SOCIETÀ IPER
La società ipermoderna è caratterizzata da una ipervelocità di cambiamento e da una ipercomplessificazione dei sistemi sociali, che sfidano la nostra capacità psichica di elaborazione. In particolare, “la smaterializzazione della finanza porta l’economia reale a un tale effetto di astrazione e di virtualizzazione – si potrebbe dire di iperrealtà – che abbiamo a che fare con una nuova forma di processi senza soggetto” (Kaës, 2012, tr. it., 2013, p. 118), cioè non riconducibili a soggetti sociali, politici, economici o psichici e associati a tre caratteristiche: l’aumento dell’insignificanza, il silenzio dei rispondenti e il diffondersi di automi istituzionali[1].
Il mondo esterno appare allora indecifrabile e dunque pericoloso. Gli individui si sentono spaesati, impotenti, angosciati e cercano di difendersi allontanandosi dal mondo interno. Ne derivano ansia, persecutorietà, fobie, panico, iperattività, tutte forme del nuovo malessere. Né è possibile lasciarsi rassicurare dalle grandi narrazioni collettive, “garanti metasociali” ormai in crisi (Kaës, 2012). I legami, subordinati alle necessità del singolo e infiltrati dalle logiche mercantilistiche iperliberali, diventano liquidi (Bauman, 2000): è l’epoca di Narciso, dipendente dall’approvazione altrui e dal successo sociale (Pietropolli Charmet, 2008).
Le conquiste tecnologiche, lasciate totalmente in mano al mercato, contribuiscono a rendere la società automatica, spingendo ciascuno ad eseguire e ripetere acriticamente (Stiegler, 2015).
Il passato recente, con i suoi immani traumi storici, non è stato ancora elaborato e il futuro è temuto come una minaccia (Benasayag & Schmit, 2003; Parrello, 2018).
La Natura è vista ora come una madre benigna, mentre si è diffidenti verso la Civiltà, che ha dato pessime prove di sé[2]. Ciò ha inciso anche sul modo di intendere l’infanzia: il bambino non è più un “piccolo selvaggio da civilizzare” con regole e punizioni ma un essere “già socialmente competente”, con talenti da coltivare (Pietropolli Charmet, 2019).
ADULTI FRAGILI
La funzione adulta è resa fragile dalla crisi del principio di asimmetria fra le generazioni, complici il peso della storia (Jeammet, 2008) e la furbizia del mercato che spinge i grandi verso una minorità che li accomuna ai giovani (Stiegler, 2008).
Nella famiglia il posto del padre è vuoto: entrambi i genitori si adoperano per proteggere i figli piuttosto che per emanciparli. Mostrano la loro fragilità narcisistica aggirando il conflitto intergenerazionale nel timore di perdere l’amore dei figli, verso i quali nutrono grandi aspettative di successo (Pietropolli Charmet, 2008).
La scuola non è vissuta come uno dei luoghi del lavoro della Civiltà, ma come il palcoscenico su cui mettere alla prova il valore del singolo. I genitori vivono i fallimenti scolastici dei figli come ferite narcisistiche che scatenano dure reazioni contro i docenti, i quali temono a loro volta il giudizio delle famiglie adottando una pedagogia difensiva. Molti sono ossessionati dalla sicurezza/incolumità fisica degli allievi a scuola.
In alcuni contesti, le condotte degli adulti-bambini non contenuti da alcuna Legge diventano drammatiche. Nel film La paranza dei bambini (Giovannesi, 2019), tratto dal romanzo di Saviano e ambientato nelle periferie napoletane, gli adulti mostrano un funzionamento pseudo-infantile che li equipara ai figli. Grandi e piccoli giocano con armi, droghe e oggetti inutili. Il loro mondo è scisso: con gli amici si è protettivi, leali, affettuosi, coi nemici spietati oltre ogni limite. Non si vedono in scena paure e sensi di colpa, ma solo vergogna, rabbia, spavalderia, sete di rivalsa e di vendetta; forse tristezza, senso di vuoto e dolore, ma un dolore che non può essere sentito e diventa subito azione violenta. Così boss di argilla grandi e piccoli seminano il male come fossero di acciaio.
[1] Un ottimo esempio si trova nel film Io, Daniel Blake di Ken Loach (2016).
[2] Si veda anche il recente movimento giovanile Friday for Future.