La dimensione del piano europeo è certamente significativa, per quanto arrivi tardivamente e sia macchinoso nell’applicazione. Le risorse complessivamente messe a disposizione dall’UE al nostro Paese ammontano a 191,5 miliardi di euro dal RRF, più 13 miliardi di euro provenienti nel quadro del programma React-EU, disponibili sul biennio 2021-2022. A integrazione è stato previsto un fondo complementare dell’ammontare di circa 30,64 miliardi a valere su risorse nazionali.
Il piano italiano, in accordo con le linee guida della Commissione Europea, si articola in sedici componenti, raggruppate in sei missioni: (1) digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; (2) rivoluzione verde e transizione ecologica; (3) infrastrutture per una mobilità sostenibile; (4) istruzione e ricerca; (5) coesione e inclusione; (6) salute.
Tra queste sei missioni, la parte del leone la fanno la prima e la seconda, che contano rispettivamente 50,07 e 69,6 miliardi. L’impatto atteso delle misure è di 3,6 punti percentuali di PIL in più nel 2026 rispetto allo scenario base, cioè senza intervento alcuno; i primi benefici, trainati soprattutto dallo stimolo alla domanda aggregata (per quanto i moltiplicatori dell’effetto di domanda siano stati stimati molto bassi), si avranno già nel 2021 e nel 2022, mentre i pieni effetti degli investimenti non si registreranno che a partire dal 2023.
La prima missione intende promuovere la trasformazione digitale del sistema produttivo, con particolare attenzione ai settori del turismo e della cultura, cui sono dedicati otto miliardi, ma anche a quei settori di frontiera come la Space Economy. La seconda missione, quella di gran lunga preponderante come dotazione, vuole affrontare la transizione ecologica, favorendo la sostenibilità del sistema economico al cambiamento climatico: riserva molte risorse all’economia circolare, al ciclo di gestione dei rifiuti, alla promozione delle energie rinnovabili, al rinnovo del parco mezzi del trasporto pubblico. Lo sforzo infrastrutturale, incardinato nella terza missione, si sostanzia perlopiù in investimenti nella mobilità ferroviaria. Per quanto riguarda la quarta missione, i fondi allocati sono concentrati sul trasferimento tecnologico e nel favorire partenariati tra le imprese e il sistema universitario. Quanto ai fondi di coesione sociale, l’obiettivo è quello di estendere la partecipazione al mercato del lavoro; ampio spazio è riservato anche alla rigenerazione urbana e al rafforzamento dei servizi sociali. Da ultimo, per quanto concerne il comparto salute, l’intenzione è rafforzare i servizi sanitari sul territorio e la ricerca biomedica.
È utile analizzare le varie voci di investimento previste dal Piano elaborato dal Governo Draghi in chiave comparativa, confrontandolo con il piano del Governo Conte, per rilevare sia il dettaglio di alcune misure, sia per capire l’impronta data dal nuovo Esecutivo. Ora, il capitolo sulle infrastrutture è stato quello maggiormente penalizzato, sia in termini relativi che in termini assoluti. Assume particolare rilievo la compressione dell’investimento nel trasporto ferroviario regionale, che dai 2,67 miliardi d’investimento previsti dal precedente esecutivo conta ora solo 0,94 miliardi. Inoltre, laddove il Governo Conte aveva incluso nel Piano 3,32 miliardi nel progetto di finanziamento dei porti italiani, investendo sia sugli scali di Trieste e Genova che sulla logistica integrata di altri scali minori, il piano attuale non prevede alcuna dotazione per il comparto. I porti sono peraltro oggetto di un ulteriore indirizzo di riforma: nel nome della concorrenza si vuole flessibilizzare alcune regole sul movimento merci negli scali, a vantaggio di alcuni grandi armatori e a danno della sicurezza e dei diritti dei portuali, come denunciato fin da subito dalle organizzazioni sindacali di categoria.
All’interno delle prime due missioni, una quota consistente di fondi è stata riallocata dall’efficientamento energetico degli edifici al capitolo sulla mobilità sostenibile. In questo contesto, emerge un’attenzione particolare all’idrogeno: laddove il Governo Conte aveva previsto di investire 8,66 miliardi nella filiera delle rinnovabili, il Governo Draghi ne alloca solo 5,90, potenziando invece l’investimento sulle infrastrutture di rete e sulla mobilità locale sostenibile, e prevedendo, per l’appunto, 3,19 miliardi per l’idrogenizzazione del trasporto e dei settori hard-to-abate. Da ultimo, la componente d’investimento nella digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA vede una riduzione della propria dotazione sia in termini relativi che assoluti.
Agli investimenti su questi sei assi principali si affiancano alcune riforme strutturali, vera e significativa novità rispetto al piano delineato dal Governo Conte. Ad essere interessate saranno la Pubblica Amministrazione e la giustizia civile e penale, ma il Piano prevede altresì una serie di riforme chiamate “abilitanti”, misure di semplificazione legislativa e di promozione della concorrenza. Queste riforme, chieste con particolare energia da Bruxelles a titolo di contropartita e accompagnamento del finanziamento offerto nel quadro del PNRR, non rappresentano nulla di inedito.
Con una non piccola dose di autocritica nei confronti delle politiche pubbliche che hanno improntato i due decenni passati, il testo riconosce quanto il mancato ricambio negli uffici pubblici abbia impedito significativamente l’azione dell’amministrazione centrale e degli enti locali, sia per via del sempre minor numero di dipendenti pubblici, sia per l’appalesarsi di sempre più significativi vincoli anagrafici e formativi. A questa lettura non segue però un piano di assunzioni nel pubblico, ma si prevede invece una riforma della PA che va a toccare le forme di accesso al pubblico impiego (rivedendo la disciplina concorsuale) e prevedendo la possibilità – inedita e preoccupante – di concludere contratti a tempo determinato per sostenere sforzi temporanei delle varie amministrazioni, come con l’attuazione del PNRR stesso. Quanto alla promozione della concorrenza, il Governo prevede l’adozione annuale di una legge per il mercato e la concorrenza, auspicando la riduzione o rimozione di barriere all’entrata nei vari mercati e favorendo la deregolamentazione di determinati settori. Particolare rilievo assume, in questo contesto, la revisione della disciplina dell’ in-house providing dei servizi pubblici: l’intento dell’Esecutivo è quello di limitare il ricorso a fornitori di servizi internamente alle amministrazioni stesse, chiedendo conto in modo stringente delle ragioni per cui si è preferito non ricorrere al mercato, con particolare attenzione al settore del trasporto pubblico locale.
Il Piano è stato accolto con toni messianici. In questo gran disegno si vede il futuro del Paese, liberato da molti dei suoi limiti strutturali e, perché no, antropologici, chiave per modernizzare l’Italia. Dietro ai colori pastello delle infografiche, però, questa modernizzazione ha qualcosa di stantio. La dimensione del Piano è certamente significativa – anche se stiamo ragionando sui lordi dei trasferimenti europei e su di un orizzonte di sei anni, quindi di circa 36 miliardi all’anno – e prevede risorse fresche per un Paese in cui gli investimenti pubblici sono da anni alla canna del gas. Tuttavia, a questa benvenuta iniezione di risorse non si accompagna un rinnovamento del modo in cui viene pensata la politica economica. Tutto l’impianto del Piano è volto a potenziare l’efficienza dal lato dell’offerta, a snellire, sburocratizzare, razionalizzare la presenza pubblica nei mercati, a favorire la concorrenza e la gestione privata dei servizi pubblici.
La pianificazione in Italia ha una storia gloriosa. È con i piani che il nostro Paese ha potuto risollevarsi nel Dopoguerra e agganciare una traiettoria di sviluppo economico, ma soprattutto sociale e umano. Non rinchiusi in un recinto economicistico o di contabilità pubblica, la portata di quei disegni si trovava nella capacità di tenere insieme il ruolo democratico delle Università, la presenza pubblica diretta nei settori strategici e nel credito, l’iniziativa privata nella società e nell’impegno produttivo. Tra i tanti programmi e progetti del Piano vi sono ottime idee così come alcune criticità, come abbiamo avuto modo di rilevare. Manca tuttavia di un disegno organico e sconta la difficoltà – ormai trentennale – di elaborare un modello di sviluppo originale per il nostro Paese, che non sia una copia non mediata e meditata di quanto fanno i tedeschi, i francesi o gli americani. A queste domande l’esercizio del Piano avrebbe potuto forse iniziare a dare risposte.