Nei giorni scorsi ci ha lasciati il grande sociologo italiano Alessandro Pizzorno. Intellettuale a tutto campo, sin dalla sua formazione giovanile non ha mai concepito i compiti del pensiero e della ricerca come un’attività ristretta entro rigidi steccati disciplinari. Questo è stato il suo approccio sin dai suoi primi studi in estetica all’università di Torino con Luigi Pareyson, a Vienna, sino a quelli di antropologia storica a Parigi, alla Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales.
Nel solco della miglior tradizione teorica europea, Alessandro Pizzorno concepisce sin da giovane nel Saggio sulla Maschera le basi che poi saranno sviluppate nella sua teoria del «riconoscimento» come elemento fondamentale dell’azione e relazione sociale. Uscito inizialmente nel 1960 in francese – come ci ricorda Roberta Sassatelli in una bellissima intervista intellettuale pubblicata nel Fasicolo 1 della rivista Studi Culturali del 2005 – il saggio, concepito per il Musée de l’Homme è pregno delle influenze fenomenologiche della Parigi degli anni Cinquanta e dall’arrivo sulle scene teatrali parigine dell’opera pirandelliana.
Da questi primi studi Pizzorno giunge poi nel 1953 ad Ivrea alle dipendenze di Adriano Olivetti, a codirigere il celebre «Ufficio di Studi e Relazioni Sociali», in quello he sarà l’epicentro di una cultura sociologica che in Italia ancora non esisteva a livello accademico, assieme a figure fondamentali del panorama intellettuale italiano come, tra gli altri, Franco Momigliano, Gino Giugni, Antonio Giolitti, Franco Ferrarotti, Luciano Gallino.
La vastità dei suoi interessi si nota sin da subito in un percorso che non si riduce positivisticamente ad un sottocampo specialistico ed autoreferenziale. Dopo aver pubblicato nel 1959 il saggio Le Classi Sociali per l’editore Il Mulino, sviluppa i primi studi sul rapporto tra comunità locali e processi di modernizzazione industriale che usciranno poi nel 1960 in Comunità e razionalizzazione per le olivettiane Edizioni di Comunità.
Se alle stesse collaborerà nella ricezione italiana dei maggiori autori classici e contemporanei della sociologia, gli interessi di Pizzorno si dedicano anche allo studio delle identità politiche, ai soggetti del pluralismo democratico e in particolare ai movimenti sociali.
E’ sua la grande ricerca sul grande ciclo di lotte operaie del secondo “biennio rosso” del 1968-69. Lotte operaie e sindacato in Italia, pubblicato per Il Mulino, è una grande opera collettiva sulle mobilitazioni e i conflitti sociali che coinvolsero le principali realtà di fabbrica italiane e che Pizzorno dirige aiutato da numerosi giovani sociologi che poi andranno ad animare numerosi dipartimenti di scienze sociali in Italia.
Anche in quella occasione, Pizzorno rinnova le sue lenti teoriche con cui interpreta la realtà, proponendo una lettura controcorrente delle azioni collettive operaie dell’epoca. La sua analisi va contro molte letture dominanti dell’epoca, tanto quelle astrazioni ideologiche che vedono nella classe operaia soggettività rivoluzionarie quasi messianiche, quanto quelle interpretazioni economicistiche che riducono l’azione collettiva ad una mera rivendicazione salariale o retributiva.
Quelle del biennio rosso sono innanzitutto, per Pizzorno, lotte per il riconoscimento, dove il bisogno di esistere come soggetto collettivo definito da un’identità non negoziabile precede le rivendicazioni specifiche e manifeste, tanto gli interessi economico-salariali quanto le rivendicazioni simboliche.
Già lì è esposta quella critica alle teorie dell’azione sociale basate su un attore razionale calcolatore o individuo animato prevalentemente dall’interesse verso la massimizzazione del proprio utile, che occuperà gran parte del ragionamento teorico ed empirico di Pizzorno
Ma la grandezza della riflessione di Pizzorno sta nel dialogare con intellettuali e ricercatori in un campo più vasto di quello strettamente accademico che lui comunque ha contribuito a sviluppare, assumendo una delle prime cattedre in Sociologia ad Urbino nel 1961, assieme a Francesco Alberoni e Franco Ferrarotti, davanti ad una commissione presieduta tra gli altri da Nicola Abbagnano e Norberto Bobbio.
Alessandro Pizzorno percorreva senza pregiudizi tutti i sentieri intellettuali, oltre steccati ideologici e disciplinari. Grande amico di Danilo Montaldi, per un periodo attento alle atttività di Raniero Panzieri e di alcuni esponenti del gruppo dei Quaderni Rossi, Pizzorno apprezzava molti giovani sociologi in cui la ricerca si fondeva con l’azione, come Vittorio Rieser, o come Mauro Rostagno, di cui una volta disse “Eravamo in molti all’epoca a pensare che sarebbero stati il futuro della sociologia”. Poi Rieser rifiutò l’accademia per dedicare la sua vita all’inchiesta operaia e al sindacato, Rostagno invece scelse l’inchiesta sociale per cui fu ucciso dalla mafia a Trapani nel 1988.
Fu lo stesso Pizzorno – come dice Romano Alquati – a diffondere il dibattito – e forse anche il termine – di “conricerca”, quell’approccio che è teso a superare le asimmetrie tra intervistante ed intervistato in un reciproco processo di svelamento e comprensione tanto di sé quanto della realtà sociale circostante.
Il livello della ricerca di Pizzorno si è sempre mosso, senza distinzioni, dentro e fuori l’accademia. Venuta subito dopo una parentesi iraniana presso l’università di Teheran nel 1959, quella di Urbino – all’epoca fucina che raccoglieva persone come il giovane Sabino Cassese e l’economista Claudio Napoleoni – costituisce la prima delle tappe che lo porteranno ad insegnare non solo in Italia (presso la Statale di Milano o l’università di Trento) ma soprattutto tra il Nuffield College di Oxford e l’università di Harvard.
Sarà Norberto Bobbio in persona il principale promotore del rientro suo in Italia, in uscita dall’università di Harvard, per insegnare sociologia all’Istituto Europeo di Fiesole, luogo dove è sempre rimasto come Emeritus Professor e dove giovani studiosi da tutto il mondo lo hanno potuto conoscere e frequentare.
L’immaginazione sociologica di Alessandro Pizzorno è difficilmente riassumibile in poche pagine di ricordo. E’ tuttavia possibile tentare di ricordare alcune riflessioni fondamentali il cui prolungamento è visibile nei molti percorsi specialistici di molti sociologi odierni, dalla teoria politica e sociale alla sociologia della cultura, dai movimenti sociali ai partiti politici sino alla sociologia economica.
La sua grande caratteristica intellettuale sta nell’aver saputo attraversare da protagonista due mondi che tra gli anni Settanta e Ottanta si aprivano verso una fertilizzazione reciproca: quello delle grandi tradizioni teoriche europee e della sociologia empirica americana.
Se nella prima Pizzorno si era formato, tra Torino e Parigi, muovendosi tra filosofia, antropologia e sociologia, l’incontro con la sociologia americana era nato forse già con l’esperienza olivettiana per poi consolidarsi direttamente con la cattedra ad Harvard e la frequentazione di numerosi sociologi americani tra i quali è da ricordare Harrison White, il sociologo che ha introdotto l’analisi di rete in sociologia.
Laddove in molti si dividevano in fazioni, Alessandro Pizzorno era capace così di dialogare tanto con la grande sociologia critica di Pierre Bourdieu quanto con l’analitica sociologica di James Coleman, di cui Pizzorno è stato grande amico.
Così lui elaborava visioni teoriche innovative sul capitale sociale, sulla fiducia, sulla partecipazione politica tanto quanto sull’identità, la vita simbolica e il mondo dell’arte.
Studi che hanno spesso avuto uno stile saggistico, comune a molti intellettuali continentali ed esponenti di quella cultura della crisi e della critica che da Nietzsche e Simmel arrivano tanto a Karl Kraus quanto a Wittgenstein, due figure figlie della Vienna d’inizio secolo, città dove Pizzorno passò una parte importante della sua formazione. Chissà se anche questo ha avuto un influsso diretto sul suo modo di scrivere.
Tanto eclettico quanto rigoroso, le riflessioni più importanti di Pizzorno sono contenute in pochi, densissimi quanto illuminanti saggi raccolti in due volumi Feltrinelli, Le Radici della Politica Assoluta e altri Saggi pubblicato nel 1993 e Il Velo della Diversità. Studi su Razionalità e Riconoscimento, del 2007.
Già dalle prime pagine della raccolta del 1993 si evince quella tensione intellettuale e scientifica che in Pizzorno non è riducibile ad un routinario specialismo, ma abbraccia weberianamente le grandi questioni teoriche di una scienza e politica intesa come professione-vocazione: “Per me, gli interrogativi che si sono posti d’acchito quando ho cominciato a guardare criticamente alla politica sono stati sostanzialmente due: chi siano i veri soggetti della politica; e che posto abbia, o debba avere, la politica nella vita della persona .Poi proprio nel procedere a dar risposta a questi primi due interrogativi se ne è affacciato un terzo: quale sia la parte da dare alla riflessione teorica sulla politica ” (p.9)
Sono pagine dove lo studioso d’origine triestina affronta le principali questioni della teoria sociale e politica contemporanea, una vera e propria cassetta degli attrezzi che ora sta ai più giovani riaprire ed utilizzare per studiare i nuovi temi che riguardano società e politica contemporanea.
Con la scomparsa di Alessandro Pizzorno se ne va non solo un esponente della “prima generazione di sociologi” cresciuti nella Ricostruzione. Se ne va uno dei principali intellettuali italiani ed un uomo di grande eleganza, le cui conversazioni portavano a nuove e sorprendenti prospettive, svelando sempre nuovi territori di ricerca inesplorati. Chi ha avuto il privilegio di conoscerlo sa anche del carattere peripatetico delle conversazioni e di come esse ricalcassero quei sentieri del pensiero che lui aveva davvero percorso assieme ai più grandi.