Da alcuni anni a questa parte in Europa, ogniqualvolta ci si lascia alle spalle un periodo di campagna elettorale, il dibattito pubblico viene puntualmente pervaso da espressioni che paiono oramai una conditio sine qua non della riflessione sui veri motivi per cui gli elettori votano nel modo in cui votano. Tra queste, immancabile, è quella del cosiddetto voto di protesta. Da quando, in particolare, nuovi imprenditori politici hanno cercato – in un ampio numero di democrazie occidentali – di mobilitare consenso sui fallimenti dei partiti tradizionali nel fronteggiare la crisi economica iniziata nel 2008, commentatori e analisti hanno identificato nella protesta la chiave di volta per la comprensione di risultati elettorali altrimenti percepiti come difficilmente spiegabili. Un primo caso lampante da questo punto di vista, almeno per l’esperienza a noi più vicina, è certamente quello delle elezioni politiche italiane del 2013. In effetti appare difficile pensare che l’inaspettato successo ottenuto dal Movimento 5 Stelle in quell’occasione avrebbe potuto verificarsi in assenza di una protesta collettiva nei confronti delle politiche di austerity messe in atto dal Governo Monti e dai maggiori partiti che lo sostenevano, PD e PDL. Lo stesso può dirsi, sebbene su scala più larga, anche delle successive elezioni per il Parlamento europeo del 2014. A detta di molti, quelle furono la prima vera occasione per gli elettori di tutta Europa di mostrare il proprio disagio verso classi politiche ‘inadempienti’ nei confronti della crisi economica a livello continentale, e infatti la crescita dei voti per partiti euroscettici fu in quel caso senza precedenti.
In qualunque contesto la si applichi, in definitiva, la vulgata del voto protesta sembra seguire ogni volta il medesimo canovaccio. In principio vi è sempre (o quasi) uno scenario di crisi della rappresentanza, per cui i principali attori che fino ad allora avevano articolato il sistema politico si trovano nella sostanza incapaci, per via di limiti interni e/o strutturali, di soddisfare le domande politiche provenienti da una porzione significativa dei loro elettori. In seguito, il “vuoto” lasciato da tali soggetti viene colmato da nuovi attori – di ‘protesta’, appunto – i quali non avrebbero però – specie in tempi di crisi economica – alcun particolare merito se non quello di organizzare il dissenso esistente verso altri soggetti. Poco o nulla dovrebbe importare infatti agli elettori di questi partiti in sé, o della loro offerta programmatica, quanto del loro costituire un’opportunità per punire l’élite partitica di riferimento. Questo almeno secondo chi sostiene questo genere di interpretazione.
Strasburgo, parlamento europeo
Al di là di come il voto di protesta appare nelle menti dei commentatori, uno sguardo ai lavori empirici sul tema dimostra che il terreno su cui ci muoviamo non è poi tanto solido quanto ci può sembrare. Nello specifico, alcuni studi – a dire il vero neanche troppo recenti – hanno mostrato come alcuni partiti dell’Europa Occidentale, abitualmente considerati “di protesta”, vengano in realtà votati su basi non dissimili da quelle che caratterizzano il voto a tutti gli altri partiti. Il riferimento è qui in particolare a valutazioni improntate su temi di policy, e nello specifico l’immigrazione. Altre ricerche hanno invece sostenuto che la protesta, intesa come scontento nei confronti delle élite e del sistema politico in generale, può sì influenzare il comportamento degli elettori, ma in favore di partiti il cui carattere di protesta non appare poi così chiaro nel dibattito pubblico. Questi possono essere infatti tanto piccoli partiti marginali, dotati di posizioni estreme su alcuni temi, quanto attori più centrali che per una qualche ragione vengono giudicati dagli elettori come idonei depositari del proprio messaggio di scontento. Su questa stessa linea si pongono anche i risultati di una mia recente analisi svolta su dati di tipo europeo (European Election Studies), all’interno della quale ho dimostrato come il binomio composto da “motivazioni di protesta da parte dell’elettore” e “successo elettorale dei cosiddetti partiti di protesta” non sia poi così scontato.
Ciò è stato in particolare possibile attraverso una serie di modelli statistici ‘controfattuali’. Purtroppo non vi è qui modo di soffermarsi approfonditamente sui dettagli tecnici del caso, tuttavia è importante quantomeno considerare che tale strategia di analisi permette di stimare con relativa facilità non solo le percentuali di voto ai vari partiti, ma anche quelle che questi otterrebbero entro una serie limitata di ulteriori scenari fittizi. In questo caso essi sono definiti da una importanza crescente (ogni volta duplicata rispetto al caso precedente) delle motivazioni di protesta nel ragionamento di voto degli elettori, qui misurate attraverso una serie di domande sulla fiducia nelle istituzioni politiche e sulla soddisfazione circa l’operato dei partiti al governo. La Tabella 1 riporta gli esiti di questa procedura in relazione al contesto italiano. I risultati sono a dir poco sorprendenti. Se infatti apparirebbe lecito attendersi un consenso sempre maggiore per partiti come il Movimento 5 Stelle lungo i diversi scenari controfattuali, a discapito magari di forze governative come il PD, quel che si nota è invece come la distribuzione dei voti rimanga complessivamente stabile.
Ora, è chiaro che risultati a tal punto contro-intuitivi richiedono inevitabilmente ulteriori approfondimenti. Tuttavia essi già appaiono come un primo, importante segnale del fatto che le conseguenze elettorali della protesta potrebbero in realtà non essere così scontate come spesso le immaginiamo. Da una prospettiva generale, ciò apre tra l’altro a un’ulteriore serie interrogativi circa l’effettiva capacità che addetti ai lavori, media ed élites politiche possono mettere in campo per leggere la protesta insita nei risultati di un’elezione. Infatti, se la realtà della protesta elettorale non corrisponde (in parte o del tutto) all’idea che intuitivamente sviluppiamo di essa, sulla base delle retoriche utilizzate dai partiti, il rischio principale che si corre è di fraintendere il significato – se non la presenza – della protesta stessa. Eppure, come già suggeriva in tempi non sospetti uno dei maestri degli studi elettorali – Philip Converse – in un Handbook of Political Science del 1975, un conto sono gli elettori, con le loro opinioni e attitudini, un altro conto sono i partiti e le strategie che questi usano per ottenere consenso. I contenuti di queste due dimensioni possono talvolta sovrapporsi, ma ciò non è da darsi per scontato. Nel caso qui discusso, stranamente, sembra che finora questa distinzione non sia mai stata adeguatamente considerata. In ottica futura, tuttavia, comprendere il meccanismo che contribuisce a rendere un partito una credibile opzione di protesta agli occhi del suo elettore – e indipendentemente da quelli di osservatori esterni, come esponenti politici e analisti – è una sfida che la ricerca politico-elettorale deve necessariamente cogliere.
Tab 1 – Esito di analisi controfattuale relativa alle probabilità di voto (PTVs) verso i principali partiti italiani
Fonte: 2014 European Election Voter Study