Assegnista di ricerca Luiss Guido Carli, Roma

Proponiamo qui un estratto del saggio di Carlotta Caciagli pubblicato nel volume Politica oltre la politica. Civismo vs Autoritarismo.


Con il radicamento del paradigma neo-liberista le città hanno assunto un ruolo sempre più centrale. La città è stata via via riconosciuta non come una “scala minore” ma come la dimensione privilegiata per il riprodursi delle dinamiche di mercato e dei meccanismi regolatori dello stato. Gli spazi urbani sono microcosmi nei quali il paradigma sociale, economico e politico in forza appare più evidente.

L’analisi della città, di come lo spazio si struttura, delle relazioni che permette o che proibisce sembra oggi più che mai un tema chiave per poter analizzare la partecipazione politica in chiave conflittuale. I motivi di questa centralità sono principalmente tre:

Primo punto. Se la crisi della rappresentanza ha coinciso con un calo della partecipazione attraverso lo strumento del voto, ciò non ha comportato una diffusa apatia sociale. Al contrario, soprattutto nei contesti urbani sono proliferate negli ultimi anni molti tipi di azioni sociali dirette che hanno visto i cittadini impegnarsi direttamente non per chiedere qualcosa alle istituzioni, ma provvedendo da soli a quei servizi disattesi dalla politica. Esempi in questo senso sono le esperienze delle palestre popolari, degli orti urbani, gli spazi autogestiti, i gruppi di acquisto solidale e molti altri. In generale, le città hanno visto concretizzarsi battaglie sociali e politiche che a livello nazionale e sovranazionale hanno avuto difficoltà ad emergere.

In questo processo lo spazio urbano non ha solo avuto il ruolo di contenitore, ma anche di propulsore. I territori sono capaci di innescare relazioni sociali precursori di percorsi politici: lo spazio fisico funziona cioè come tessuto connettivo per una serie di soggetti che, nel contesto post-industriale, sono frammentati. In questo senso, la città gioca un ruolo simile a quello giocato dalla fabbrica in passato. Basta pensare per esempio alle mobilitazioni che si sono sviluppate in Italia (ma anche in Europa) fra i ciclofattorini delle piattaforme di food delivery. Nonostante l’alto grado di precarizzazione e frammentazione, i ciclo-fattorini sono entrati in contatto grazie al contesto urbano stesso, per loro vero e proprio luogo di lavoro perché dimensione nella quale si spostano in bicicletta fra i ristoranti e le case dei clienti. Grazie anche alla visibilità di questi lavoratori nello spazio urbano si è prodotta una grande solidarietà, mediatica e fisica, che ha dato a queste mobilitazioni rilevanza e agibilità politica. Al di là delle rivendicazioni specifiche, le mobilitazioni dei riders si sono strutturate attraverso le così dette ciclofficine, laboratori autogestiti nei quartieri nei quali, dal basso, i lavoratori possono riparare le proprie biciclette o spendere del tempo insieme. Questa forma di mutualismo fai da te non ha coinvolto esclusivamente i riders ma si è anzi estesa ai quartieri nei quali le ciclofficine si sono istaurate, coinvolgendo cittadini nella gestione dello spazio e, in seguito, nelle proteste politiche.

Le mobilitazioni dei riders ci costringono a farci carico di una forma di partecipazione che, a differenza di quella convenzionale, si origina in modo piuttosto spontaneo e che non è catalizzata da soggetti collettivi strutturati nel senso tradizionale del termine, come per esempio i sindacati confederali o i partiti. Al contrario, queste mobilitazioni raccolgono l’attivismo sociale movimentista che difficilmente ha trovato un canale istituzionale. L’esempio delle lotte dei riders è particolarmente significativo anche per due motivi. In primo luogo perché permette di indagare gli effetti del radicamento del capitalismo digitale e di piattaforma sui territori. In secondo luogo perché rende evidente come la città sia la scala privilegiata per la riproduzione di un modello economico, ma anche il luogo che pone le condizioni per la sua messa in discussione attraverso esperienze di rivendicazione politica ma ancor prima di partecipazione sociale. Ci permette cioè di analizzare la partecipazione politica all’alba del consolidamento del capitalismo digitale e dell’economia di piattaforma.

 

Secondo punto: Nel contesto urbano la relazione fra cittadini e istituzioni diventa concreta e tangibile. Si traduce cioè in una serie di relazioni di prossimità. Una relazione riguarda anche i soggetti collettivi più conflittuali, come i movimenti urbani. Questo rapporto si sviluppa su un crinale tanto potente quanto delicato. La cooperazione rischia infatti di tradursi in cooptazione, ovvero in un rapporto che anziché farsi carico della conflittualità espressa dai movimenti urbani, si traduce nella neutralizzazione delle loro istanze. Se guardiamo ad alcuni movimenti storici, come i movimenti di lotta per la casa, questa contraddizione si palesa in modo sistemico. Basta pensare, per esempio, alle pratiche dell’auto recupero, ovvero la ristrutturazione di immobili abbandonati e occupati da movimenti di lotta per la casa regolata da leggi regionali, per le quali i movimenti si battono da decenni. Le leggi sull’auto recupero sono esse stesse il frutto dei rapporti conflittuali fra movimenti e amministrazioni comunali e regionali (es. la legge regionale n. 55 del 1998).

Senza dubbio questa modalità di reperimento di alloggi è efficace perché permette di recuperare case a basso costo e senza bisogno di nuovo consumo di suolo. Inoltre, permette di avere case sociali o popolari in contesti urbani consolidati, evitando la creazione di quartieri ghetto ai bordi delle città. Inoltre questa pratica consente la fuoriuscita delle persone occupanti da uno stato di illegalità abitativa. Allo stesso tempo però per il movimento stesso rappresenta la perdita di un presidio di resistenza e contestazione. Da questo punto di vista la collaborazione sembra implicare una drastica neutralizzazione del conflitto sociale di cui i movimenti sono espressione.

Ciò nonostante, la storia recente ci offre anche esempi di come la collaborazione non di necessità lasci fuori il conflitto ma che invece faccia del conflitto il nucleo centrale di cambiamenti nelle istituzioni e nel tessuto sociale. Un esempio su tutti viene da Roma, e nella fattispecie dal quartiere Cinecittà. Dagli inizi del 2000, sotto la presidenza al municipio di Sandro Medici, il quartiere ha vissuto un periodo di intensa collaborazione fra i movimenti di lotta per la casa e l’istituzione municipale. In questa zona periferica e caratterizzata da un forte disagio abitativo la questione della casa era stata una tematica che aveva permesso di sviluppare una commistione di competenze e pratiche fra amministrazione e organizzazioni di movimento (…).

Terzo punto: a livello urbano la complessità della relazione fra cittadini e istituzioni costringe a ripensare i termini stessi di questo rapporto. Guardando alla partecipazione che si sviluppa nelle varie organizzazioni dal basso emerge come sia la categoria di cittadini, che quella di istituzione siano parziali, non sufficienti per spiegare le intricate relazioni verticali e orizzontali che si strutturano nelle città. Innanzitutto, nella città si entra in relazione con più istituzioni alla volta. Non è solo l’amministrazione la referente: anche la prefettura e il commissariato, per esempio, diventano soggetti in primo luogo coinvolti nelle dinamiche della partecipazione. Nella gestione dei conflitti che si sviluppano nei contesti urbani dunque, lo Stato entra in gioco con le sue varie declinazioni territoriali. Inoltre, come abbiamo visto nel punto due, l’amministrazione comunale stessa non è da considerarsi come un tutto, in molte città l’organizzazione fatta di municipi aggiunge un livello nella relazione fra istituzioni e cittadini.

Anche il termine cittadini non sembra abbastanza per definire l’eterogeneità delle persone che si muovono e partecipano nei contesti urbani. Molte ricerche hanno puntualizzato come i fenomeni di trasformazione urbana abbiano creato città attraversate più che vissute, popolate cioè dai così detti city users, persone cioè che si recano in città per lavorare o per la movida ma che non possono permettersi di risiedervi, principalmente a causa di un costo della vita sempre più elevato (Caciagli 2019; Agostini e Scandurra 1018; Semi 2015). Dunque esiste una discrasia fra chi produce la città e chi, tramite gli strumenti convenzionali della partecipazione (es. voto), può avere voce in capito nella sua gestione. Inoltre le dinamiche relative alla precarizzazione dei lavori fanno si che si risieda in città per un arco di tempo sempre più breve. Questo cambia la relazione fra cittadini e politica locale, infatti i cittadini che danno mandato alla politica (problema di accountability) sono tendenzialmente solo quelli che sono nelle condizioni sociali ed economiche di poter risiedere in città secondo i crismi della cittadinanza. Si sta producendo cioè un cortocircuito per il quale i destinatari delle politiche messe in campo non hanno capacità di incisione sui propri rappresentanti perché formalmente non cittadini di quel luogo.

Inoltre, se guardiamo la composizione sociale dei partecipanti ai movimenti urbani, ci rendiamo conto dell’inefficacia del concetto di cittadinanza. Molti di coloro che abitano i contesti urbani sono immigrati economici che difficilmente godono dello status di cittadini. Ciò nonostante contribuiscono a produrre, come dicevamo prima, gli spazi urbani, lavorandoci, consumando, attraversando lo spazio. Allo stesso tempo, sono anche fra coloro che partecipano ai movimenti urbani, con diverso grado di attivazione.

Costringendoci a ripensare i termini cittadini e istituzioni, così come il loro rapporto, uno sguardo sull’urbano ci costringe anche ad altro: a ripensare il valore epistemologico della partecipazione stessa. Infatti negli studi sull’innovazione democratica e sulla partecipazione politica siamo abituati a pensare i cittadini come una somma di individui che si conquistano una capacità di incisione sulle istituzioni e nei processi democratici. Anche quando si chiama in causa la collettività essa viene pensata come la somma di individui, con un approccio da free-riders. Cioè pare essere ancora più vero oggi, al seguito di oltre dieci anni di crisi economica e della rappresentanza. Alcuni recenti studi hanno messo in evidenza come uno degli effetti della crisi economica e delle misure di austerity sia stata proprio la frammentazione e individualizzazione di molti contesti urbani, come per esempio le periferie. Si è messo in evidenza cioè, come sia sempre più difficile partecipare come soggetti collettivi alla vita sociale e politica.

La partecipazione che si struttura nei contesti urbani sembra andare nella direzione opposta. Analizzarla ci costringe a porci, con rinnovata forza e determinazione, non tanto il problema della partecipazione, ma quello della sua qualità e sostanzialità. Il tipo di partecipazione che emerge è infatti diversa dalla partecipazione tradizionale, non solo per forme di azione e repertori. Prima ancora della partecipazione, i movimenti urbani sono contesti nei quali le persone politicizzano, imparano cioè a rispondere alle problematiche personali attraverso analisi e percorsi collettivi.

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