La marginalità, soprattutto se riferita ai contesti urbani, è una categoria che presenta diverse dimensioni e articolazioni. La si può definire in termini economici, culturali, giuridici, sociali, spaziali, ecc. “Vivere ai margini” significa perciò molte cose differenti, legate tra loro ma non necessariamente sovrapposte.
Negli ultimi anni, la dimensione spaziale e quella sociale sono forse le più analizzate nel dibattito scientifico e le più presenti nei discorsi politici e pubblici. Eppure, altri aspetti sono centrali per comprendere questo fenomeno di esclusione o, detto diversamente, di espulsione.
La “spinta” verso i margini di una collettività può assumere sembianze giuridiche, traducendosi nella negazione di status formali e, di conseguenza, nell’impossibilità di esercitare concretamente diritti a livello locale. Il rifiuto di riconoscere la residenza anagrafica è emblematico al riguardo: si tratta di un comportamento molto diffuso negli ultimi anni, che assume in alcune città proporzioni rilevanti.
Concretamente, numerose amministrazioni comunali – favorite anche dagli interventi legislativi effettuati da governi di diversi orientamenti politici – negano l’iscrizione anagrafica a chi, sulla base della normativa statale, ne avrebbe diritto. Ossia, non soltanto a tutte le persone che hanno la cittadinanza italiana, ma anche a quelle appartenenti a uno stato membro dell’Unione europea o a un paese terzo, le quali dovrebbero essere registrate in quanto regolarmente soggiornanti.
Impiegando a volte strumenti formali e visibili, soprattutto a livello mediatico, e altre volte strategie più informali e nascoste, questi comuni restringono i requisiti previsti per il riconoscimento della residenza o ne aggiungono di nuovi, pur non disponendo, legalmente, di alcuna autorità in materia. Gli effetti della mancata registrazione sono devastanti: alla discriminazione compiuta dalle istituzioni locali, già di per sé lesiva, a livello simbolico e materiale, della dignità di chi la subisce, si aggiunge l’impossibilità di esercitare effettivamente importanti diritti di tipo civile, economico, sociale e politico.
La marginalità urbana prodotta dalle azioni istituzionali che negano la residenza coincide, prima di tutto, con l’esclusione da uno status: quello di residente formalmente riconosciuto. Si tratta, in altre parole, dell’espulsione dalla piena condizione di “cittadina/o locale”, che interessa persone – è importante ribadirlo – pienamente autorizzate a soggiornare in Italia, in ogni parte del suo territorio, e quindi titolari del diritto all’iscrizione anagrafica. Questo tipo di marginalizzazione è dovuta a ostacoli che non hanno una consistenza materiale né esclusivamente linguistica – pur essendo la dimensione discorsiva assolutamente rilevante –, ma che, piuttosto, si configurano come barriere legali e amministrative.
Diversamente da periodi passati, quando, tra fascismo e dopoguerra, erano in vigore le leggi contro l’urbanesimo (S. Gallo, Senza attraversare le frontiere. Le migrazioni interne dall’Unità a oggi, 2011), la mancata registrazione, oggi, non è motivo sufficiente per allontanare un individuo dal comune in cui vive. Chi è colpito dall’esclusione anagrafica, dunque, vive nello stesso spazio di chi ne è immune, ma è costretta/o a condurre la propria esistenza in maniera diversa, marginale. Si tratta, dunque, di un’esclusione diretta a individui e gruppi già presenti all’interno della comunità locale. A differenza di quella prodotta dai “nuovi muri” descritti e analizzati da alcune studiose (W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, 2013; O. De Leonardis, Altrove. Sulla configurazione spaziale dell’alterità e della resistenza, 2013), non serve a separare spazialmente ma a marcare confini, invisibili da una prospettiva spaziale, capaci di dividere internamente la popolazione comunale, istituendo distinzioni tra cittadini locali “di serie A” e “di serie B”.
Le barriere legali e amministrative contro la residenza, pertanto, agiscono sulle persone piuttosto che sugli spazi: in un quadro di coesistenza fisica, invece di nascondere la disuguaglianza mediante la distanza spaziale creano distanze sociali stabilendo disuguaglianze simboliche, formali e sostanziali. Chi è escluso dalla residenza ed espulso dallo status di cittadino locale, più in dettaglio, è privato di una identità amministrativa, trovandosi così nella condizione di “fantasma burocratico”, e non può esercitare concretamente i diritti di cui è titolare secondo le leggi statali. Inoltre, pur non potendo essere allontanato dal territorio comunale in cui vive per il solo fatto che non è iscritto in anagrafe, rischia, seppur soltanto indirettamente, di essere esposto ad altre forme di “deportazione”, azionabili attraverso strumenti poliziesco-amministrativi come i fogli di via o i decreti di espulsione.
La possibilità di incorrere in forme di marginalizzazione anagrafica non fa che precarizzare sempre più le appartenenze formali, ossia i legami giuridici tra i singoli immigrati e lo stato italiano: le modalità con cui i non cittadini sono riconosciuti come membri – seppur parziali – della società sono rese altamente instabili. Questa precarizzazione acuisce il sistema di stratificazione civica (L. Morris, Managing Migration: Civic Stratification and Migrants’ Rights, 2003), ossia la gerarchia al cui interno sono collocate/i, all’apice, le/i non cittadine/i e, negli strati sottostanti, gruppi di non cittadine/i dotate/i di posizioni e di risorse di potere progressivamente inferiori e meno solide, che ne condizionano l’autonomia. Ad esempio, due persone che dispongono dello stesso tipo di permesso di soggiorno, e che si trovano perciò, in teoria, nella stessa posizione formale, vanno a collocarsi su piani differenti qualora una delle due sia iscritta in anagrafe mentre l’altra no.
Precarizzazione delle appartenenze e stratificazione civica producono una forma di inclusione differenziale (De Genova, Migrant «illegality» and deportability in everyday life, 2002; Mezzadra e Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, 2013): la mancanza di diritti e il depotenziamento degli status rendono gli individui privi di residenza soltanto parzialmente inclusi, destinandoli a una subordinazione più o meno grave all’interno della società, vale a dire a occupare posizioni di elevata vulnerabilità, soprattutto nel mercato del lavoro.
La negazione della residenza, dunque, in quanto forma di esclusione ed espulsione giuridica rappresenta un’articolazione dei percorsi di marginalizzazione urbana. Spingere ai margini, in questo senso, significa costruire status differenziati all’interno delle città e rendere i soggetti che li occupano più ricattabili e vulnerabili. Un processo del genere, nel quadro delle attuali trasformazioni urbane e delle retoriche che le circondano e legittimano, incentrate sulle possibilità di emancipazione individuale, restringe gli spazi di autonomia dei singoli invece di ampliarli. Ripensare la città, di conseguenza, significa in primo luogo contrastare simili modalità di gestione del potere a livello locale e immaginare nuovi tipi di riconoscimento comunale.