Il centesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre nel 2017 ha registrato innumerevoli iniziative convegnistiche, espositive e di varia natura in tutto il mondo (anche se molto meno in Russia che in Europa, negli Stati Uniti o in America Latina). Tuttavia è giusto chiedersi se quelle celebrazioni abbiano segnalato un’autentica “presenza” dell’evento 1917 nella memoria storica o non siano state invece disconnesse dal passato del nuovo secolo, un tributo offerto alla consuetudine sempre più invadente degli anniversari senza però suscitare interrogativi e questioni davvero stringenti nel presente. La Rivoluzione Russa è stata sostanzialmente rimossa dal piedistallo storico centrale che ha occupato per molti decenni e che ha trovato la sua sistemazione storiografica a posteriori nel “secolo breve” di Hobsbawm. Un quarto di secolo più tardi, la formula e la periodizzazione del “secolo breve” ci appaiono irrimediabilmente invecchiati. Gli storici coltivano prospettive e visioni diverse, per lo più declinate con i vari paradigmi della modernità globale. Proprio queste prospettive possono però suggerire nuovi significati e gerarchie di senso, ricollocando l’evento 1917 in una dimensione storica che non potrà più essere quella del secolo scorso, ma neppure dovrà andare smarrita tra narrazioni metastoriche e damnatio memoriae.

È questa una necessaria premessa al centenario della Terza Internazionale (marzo 1919), la cui nascita fu una conseguenza diretta dell’Ottobre 1917 e un evento fortemente voluto da Lenin per stabilire sul piano politico e simbolico la centralità della rivoluzione mondiale nelle aspirazioni e nei progetti dei bolscevichi. La “rimozione” della rivoluzione ha investito ancora più il “partito mondiale della rivoluzione”, gerarchico e centralizzato, come si rappresentò il Comintern e come venne percepito dai suoi nemici. Senza contare il fatto che la sua storia fu sostanzialmente fallimentare anche agli occhi dei contemporanei. Il Comintern presiedette alla nascita dei partiti comunisti in Europa e nel mondo, ma non conquistò la maggioranza della classe operaia fedele alle socialdemocrazie e non scatenò nessuna rivoluzione mondiale. Anzi, la sua sigla si legò a un lungo elenco di rivoluzioni abortite: in Ungheria, la Repubblica dei Consigli (aprile-agosto 1919); in Germania, l’ “azione di marzo” (marzo 1921) e soprattutto “l’Ottobre tedesco” (ottobre 1923); in Bulgaria (settembre 1923); in Cina (1926-27); a Cuba (1933); in Brasile (1935). Dopo il 1923, i tentativi di scatenare una rivoluzione nei paesi capitalistici dell’Europa cessarono per sempre, ma non per questo le rivoluzioni nel mondo coloniale conobbero particolari impulsi. La “costruzione del socialismo” in Unione Sovietica divenne una priorità rispetto alla “rivoluzione mondiale“. La subordinazione del Comintern agli interessi dello Stato sovietico fu un dato conclamato sotto Stalin.

Anche le “svolte” strategiche cominterniste generarono soprattutti insuccessi clamorosi. La teoria del “socialfascismo” lanciata nel 1929 contribuì a dividere la sinistra tedesca e favorì l’ascesa di Hitler nel 1933, portando alla distruzione del Partito comunista tedesco. La formula dei Fronti Popolari lanciata nel 1935 portò alla vittoria elettorale delle alleanze delle sinistre in Francia e in Spagna nel 1936 e al consolidamento di partiti di massa in questi paesi, ma le forze antifasciste furono sconfitte nella guerra civile spagnola (luglio 1936-marzo 1939). L’abbandono della linea antifascita imposto dal Patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939 ridusse il movimento in Europa ai minimi termini e provocò la distruzione del Partito comunista francese, messo al bando subito dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il Comintern riprese a svolgere un certo ruolo di propaganda e attività cospirative nell’Europa dominata da Hitler dopo l’invasione nazista dell’Unione Sovietica nel giugno 1941. Ma la sua stessa esistenza era palesemente anacronistica alla luce della ricerca di legittimazione nazionale dei partiti comunisti nel tempo di guerra. Quando Stalin ne decise lo scioglimento, nel giugno 1943, ritenendo che la centralizzazione organizzativa non fosse un criterio adeguato agli sviluppi dei partiti comunisti su basi nazionali, tutti i principali dirigenti si dissero d’accordo e nessuno rimpianse la fine del Comintern.

Tuttavia gli storici non dovrebbero trascurare l’eredità del Comintern. Esso fu il principale network politico globale dell’epoca tra le due guerre. Contribuì alla nascita di una politica di massa in Europa e, ancor più, nel mondo coloniale, dove i partiti comunisti furono espressione della modernità politica, seppure con fortune alterne. Gettò le fondamenta ideologiche e culturali delle élites comuniste destinate a svolgere un ruolo molto importante nella guerra fredda e nella decolonizzazione dopo la fine della guerra. È scontato rilevare che i quadri formati nell’organizzazione tra le due guerre consolidarono il potere comunista nell’Europa centrale e orientale occupata dall’Armata Rossa, diventando in gran parte personale di governo delle “democrazie popolari“. Ma l’eredità cominternista è molto più ampia di così. Negli anni tra le due guerre, il Comintern fallì tutti i suo principali obiettivi, ma fu una scuola di formazione politica e un centro di connessioni transnazionali. Si intrecciò con i più diversi movimenti a carattere anti-imperialista e anti-razzista su una scala mondiale. Costruì e smantellò perennemente reti di collegamento, mobilitando ingenti risorse materiali fornite dallo Stato sovietico, ma anche risorse simboliche e culturali che diffusero un po’ ovunque le visioni e i linguaggi del comunismo. La sua attività si svolse lungo un asse centro-periferia che si voleva operativo e coeso, ma in realtà creò o influenzò connessioni molto più ampie anche se molto meno funzionali, non necessariamente espressione delle intenzioni degli attori in scena.

Sotto questo profilo, il fuoco della ricostruzione storica dovrebbe spostarsi dal classico tema della subordinazione o insubordinazione dei partiti nazionali alle strategie di Mosca, al tema delle molteplici implicazioni, significati e pratiche che l’azione dei comunisti promosse in una prospettiva globale. Dopo il giugno 1943, l’apparato del Comintern venne incorporato nella burocrazia del Partito comunista sovietico, divenendo il suo Dipartimento internazionale. Nei due anni successivi, si verificò un enorme salto di qualità del movimento comunista, che acquisisce dimensioni di massa mai viste prima in molti paesi europei e fuori d’Europa. Il prestigio conquistato dall’Unione Sovietica grazie alla vittoria militare sul nazismo e la partecipazione dei comunisti alle resistenze antifasciste in Europa e anti-imperialiste in Asia rappresentarono una duplice fonte di nuova legittimità, che rilanciava l’idea di un soggetto portatore di una “modernità alternativa” al capitalismo, alle sue crisi e degenerazioni nel periodo tra le due guerre. Questa nuova dimensione di massa del comunismo internazionale poggiava sull’esistenza di leader e quadri dirigenti sopravvissuti al terrore staliniano e ai massacri anticomunisti, sull’accumulo di collegamenti transnazionali che non si interruppero mai completamente, sulla capacità di veicolare discorsi classisti e nazionali destinati a lanciare ipoteche credibili sulle nuove generazioni nel mondo del dopoguerra.

Questo capitale politico consentì ai comunisti di esercitare una significativa influenza combinando vocazione internazionalista e nazionalizzazione dopo la Seconda guerra mondiale, principalmente nel Terzo Mondo. I tentativi di ricostruire organizzazioni internazionali del comunismo diverse dal Comintern ebbero invece vita breve e stentata. Nel 1947 Stalin creò il Cominform, un organismo limitato all’Europa e incentrato sulla guerra fredda, che non ebbe alcun ruolo nell’Asia rivoluzionaria. Dopo il 1956, i successori di Stalin convocarono conferenze del comunismo mondiale rivolte soprattutto a includere i partiti dei paesi emergenti dalla fine del colonialismo, ma la rottura tra Unione Sovietica e Cina ne compromise il significato. L’eredità del Comintern conobbe un inesorabile logoramento. Oggi vediamo però meglio che il tramonto della tradizione internazionalista del comunismo non fu un caso a sè stante, legato alle fratture del “campo socialista” e al declino ideologico del marxismo-leninismo. Fu anche l’annuncio del tramonto di tutti gli internazionalismi, in un mondo che nell’ultimo mezzo secolo ha portato all’estremo la contraddizione esplosiva tra la globalizzazione economica e il nazionalismo risorgente della politica.


Qui di seguito alcuni documenti tratti dal patrimonio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli sulla Terza Internazionale tra i quali spiccano le pubblicazioni in differenti lingue del Primo Congresso del Komintern, il periodico in lingua russa dell’Internazionale comunista, gli atti sulla questione coloniale, l’intervento del segretario dell’organizzazione Georgi Dimitrov contro il fascismo che apre la stagione dei “fronti popolari”.

 

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