Giornalista

«Alla notizia della strage scappai in Questura. La sera del 23 maggio 1992, tornando a casa, trovai una fila di persone davanti al portone che mi sorprese. I palermitani si erano assuefatti alla violenza mafiosa. Quel giorno s’indignarono e qualcosa iniziò a cambiare. I funerali di mio marito, Antonio Montinaro, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo e Vito Schifani scossero la coscienza della città, della Sicilia e dell’Italia, segnando una reazione civile».

Tina Montinaro, la moglie del caposcorta del giudice Falcone, parla nella sua abitazione a Palermo, mentre versa il caffè. Ha trascorso gli ultimi trent’anni a lenire il dolore, danzando sul confine che delimita la memoria personale, quella pubblica e la Storia.

«Nel 1992 Antonio aveva trent’anni e non era un eroe», dice. «Proveniva dalla Questura di Bergamo e chiese l’aggregazione per il Maxiprocesso a Cosa nostra. Ammirava Falcone e aveva giurato alla Repubblica italiana. Scelse consapevolmente l’impegno della protezione del magistrato più esposto nella lotta alla mafia e lo mantenne dopo il preavviso di morte del fallito attentato all’Addaura. Non cambiò idea neanche quando lo Stato tolse l’indennità di rischio».

Fino al 1997 Tina ha coltivato in forma strettamente privata la rielaborazione di una ferita intima e tuttora aperta della storia repubblicana. Quando ricorda il marito, non dimentica mai chi condivise la stessa sorte, come fosse un’orazione collettiva. I magistrati e gli agenti caduti erano uomini concreti e fallibili. La beatificazione è una maledizione, perché rende queste figure estranee a noi. Sapevano commisurare la paura con il coraggio. Presero atto della situazione in cui si trovavano fino all’ultimo e seppero agire come le circostanze richiedevano. Per questo non ne deve essere perduta la memoria.

«Trentenne con due figli piccoli mi sono ritrovata dentro a una vicenda molto più grande di me», riflette Tina. «Sono cresciuta in fretta. A trent’anni di distanza dalla stagione del terrore stragista manca ancora una piena verità. Ti rendi conto che esistono dinamiche difficili anche solo da immaginare. Dopo gli anni del silenzio, ho dovuto mettermi in gioco in prima persona, perché lo Stato non ha saputo coniugare la giustizia con la memoria».

Dove sono finiti i resti della macchina divelta nell’attentato? Il viaggio in Italia di Tina Montinaro è cominciato, ponendo questa domanda che l’ha spinta fino all’autoparco della Polizia di Stato a Messina: «Nelle lamiere della vettura, la Quarto Savona 15, sono rimaste tre vite, tre passioni e tre famiglie. Non mi hanno potuto mostrare il poco che restava del corpo di Antonio. Guardando l’auto, nessuno può essere indifferente».

Senza questa iniziativa personale e la successiva collaborazione dei vertici della Polizia, un simbolo fondamentale per comprendere la portata e il significato della strage di Capaci verserebbe in stato di abbandono. Solo cinque anni fa la teca con il groviglio di rottami della Quarto Savona 15 ha trovato una collocazione a Palermo. Non scordiamo che la prima statua in memoria di Falcone è stata eretta in America a Quantico nell’accademia dell’Fbi, nel 1994. In Italia per avere una lapide commemorativa al Ministero di giustizia si è aspettato fino al 2002.

«Oggi, dopo mille stragi, dopo Falcone e Borsellino, ogni spazio parrebbe chiudersi, non dico all’idillio, ma alla fiducia più esangue. E tuttavia… finché in una biblioteca mani febbrili sfoglieranno un libro per impararvi a credere in una Sicilia, in un’Italia, in un mondo più umani, varrà la pena di combattere ancora, di sperare ancora. Rinunziando una volta per tutte a issare sul punto più alto della barricata uno straccio di bandiera bianca», scrisse Gesualdo Bufalino nella nota Poscritto 1992 contenuta nell’antologia Cento Sicilie. Scavando nelle storie e memorie dei sopravvissuti alla Tombstone italiana, che spesso hanno pianto in solitudine i “propri” morti per la nazione, si trovano le tracce della resistenza descritta da Bufalino. Una resistenza fondata sulla ricerca e conoscenza dei fatti.

Cosa nostra, distribuendola dappertutto, ha reso la morte il suo volto pubblico. Doveva ostentare il potere di mostrarla. Dopo la scomparsa di De Mauro, dal 1979 in poi gli omicidi eccellenti (Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa e quanti altri) hanno lasciato una traccia in ogni strada. Cosa nostra si era impossessata della morte e della possibilità di darla.

«Quale impasto sociale e umano ha potuto tollerare che tre Kalashnikov sparassero a Cassarà sulle scale di casa, mentre la moglie con la bambina piccola urlava, bussava alle porte per salvarsi e nessuno le aprì – osserva l’ex giornalista de L’Orae scrittore Piero Melati. Quella dell’autobomba di Chinnici che città è? Leggevamo nei giornali “Palermo come Beirut” sul terrazzino della casa di famiglia, mangiando il gelo di mellone. Poi ti abitui a tutto, le dittature sono così. La fine è solo l’annientamento, perché arriviamo a tollerare tutto. Vedo una relazione con la parola totalitarismo e persino con il regime concentrazionario».

Prima dell’attentato più eclatante su una curva dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi corre verso Palermo, con la potentissima deflagrazione di oltre cinquecento chili di tritolo che creò un cratere, l’omicidio (29 luglio 1991) di Libero Grassi, imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo e aveva denunciato pubblicamente, animò una rivolta. Apparvero i lenzuoli bianchi sui balconi e scritte contro i boss. La città cominciò a ribellarsi, ad aprire una strada per il futuro, e l’Italia a percepire quanto la questione fosse parte della biografia nazionale, non una storia solamente siciliana.

Il 30 gennaio 1992 alla conclusione del Maxiprocesso, istruito dai giudici del Pool antimafia di Palermo, con la condanna all’ergastolo in Cassazione della cupola di Cosa nostra, fu confermata l’esistenza di un’organizzazione criminosa caratterizzata da una struttura verticistica e dall’aggregazione di diversi nuclei operativi uniti dalla ricerca di profitti illeciti con metodi di sopraffazione e intimidazione.

Questo è stato uno spartiacque decisivo sul fronte dell’opinione pubblica, giudiziario e in parte di quello politico. Non si poteva più negare la sua esistenza ed erano state gettate le fondamenta del movimento che possiamo chiamare antimafia, affermatosi nella prima metà degli anni Novanta. Nacquero e si svilupparono realtà come Libera. La questione mafie entrò finalmente nell’agenda nazionale.

All’inizio del decennio degli anni Ottanta ancora si metteva in discussione l’esistenza stessa della mafia, spesso definita come una semplice associazione per delinquere, quando Chinnici oltre ad aver definito l’essenza del potere di Cosa nostra, ne aveva delineato l’unitarietà e l’interdipendenza fra le famiglie mafiose. Il fenomeno necessitava di una lettura non più frammentaria.

Scrisse Falcone un anno prima della sentenza definitiva della Cassazione: «È risultato di grande rilievo che sia stata autorevolmente confermata dai giudici di secondo grado, l’esistenza e l’unicità di un’organizzazione criminale che, per numero dei suoi membri e per pericolosità, non ha uguali nel mondo occidentale. La precisazione è d’obbligo: finalmente si è giunti a una incontestabile identificazione della natura e delle dimensioni del “nemico” da combattere».

Dopo l’addio del consigliere istruttore Antonino Caponnetto, tornato in Sicilia per proseguire il lavoro intrapreso da Rocco Chinnici, a Palermo il decennio di lotte che aveva prodotto il Maxiprocesso entrò in una fase di reflusso o “normalizzazione.” Il 19 gennaio 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura per la carica di guida dell’Ufficio Istruzione, al posto di Caponnetto, indicò per questione d’anzianità Antonino Meli, scartando la candidatura autorevole di Falcone non raramente accusato di protagonismo giudiziario.

L’apice della stagione dei veleni fu l’attentato mancato all’Addaura: 58 candelotti di esplosivo rinvenuti il 21 giugno 1989 nel tratto di scogliera tra la casa, presa in affitto da Falcone, e il mare. Il giudice, che aveva come ospite la collega Carla Del Ponte, qualificò come raffinatissime le menti che lo avevano progettato e fu l’anticipazione della strage di Capaci.

Dopo la conferma in sede giudiziaria della validità dell’impianto accusatorio del Maxiprocesso con il progressivo smantellamento del pool, l’azione repressiva del fenomeno mafioso perse di slancio e d’efficacia. Alla sentenza del Maxiprocesso del 16 dicembre 1987, che inflisse 2665 anni di carcere ai mafiosi, Falcone segnalava invece la necessità di un ulteriore salto di qualità nella strutturazione del lavoro antimafia. Un’urgenza che lo portò da Palermo a Roma, dove ricoprì la carica di Direttore generale degli affari penali del Ministero di giustizia, subendo violente accuse dalla stessa magistratura come se avesse ceduto alle lusinghe della politica.

«Molti lo ricordano ancora oggi per il rigore delle sue indagini. Riconoscendogli, anche a livello internazionale, la grande professionalità e il merito di avere scoperto cosa significasse Cosa nostra. Pochi ricordano i momenti più tragici della sua vita e gli attacchi subiti anche da chi riteneva amico e il grande isolamento in cui fu costretto, rendendo ancora più pericolosa la sua vita», ha sottolineato la sorella Maria, che attraverso la Fondazione Falcone ha realizzato numerose iniziative, innanzitutto con i giovani, per trasmettere il senso di questo sacrificio.

A Palermo è nato un luogo prezioso per ricostruire la memoria di queste esistenze con i documenti e gli atti che determinarono quella stagione. Varcando le soglie del Palazzo di giustizia, si scopre la cura con la quale Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto all’attentato del 29 luglio 1983 per uccidere Chinnici e successivamente collaboratore tecnico informatico del pool antimafia, tutela il Museo Falcone – Borsellino.

Durante la visita si entra nelle stanze del bunker dei giudici arredate con le carte delle indagini, processi e loro oggetti personali. I luoghi sono fatti anche della materia di chi li animati, delle cose che sono accadute e la loro presenza si avverte forte. Come Tina Montinaro, Paparcuri evoca la fatica del fare memoria pubblica:

«Questi uffici erano diventati una discarica di carte, nonostante si conoscesse il loro valore storico. Nel dicembre del 2015, l’allora presidente della Corte di appello e il presidente della giunta distrettuale della ANM mi proposero di far rinascere questo spazio con la documentazione conservata nel periodo di lavoro condiviso con i giudici».

Nella stanza di Falcone è appesa una lettera dolorosa, nella quale il giudice spiegava così le ragioni della rinuncia a un impegno di carattere accademico (anno 1988/’89) e formazione per gli studenti: «(…) L’enfatizzazione fin da adesso di questa iniziativa, però, rischia di snaturare gli scopi di questo corso che dovrebbe costituire, non già passerella per chicchessia, ma mezzo di approfondimento serio di una materia la cui importanza è superfluo sottolineare. E già dai primi articoli di stampa riaffiora, anche stavolta in maniera distorta e strumentale, la solita polemica sui professionisti dell’antimafia e sui riconoscimenti di cui costoro godrebbero».

Falcone concluse il messaggio, asserendo che sarebbe stato meglio mettersi da parte, con la speranza che servisse a qualcosa, per non distogliere l’attenzione dai problemi reali con le solite polemiche su mafia e antimafia. Questo era il clima che lo accompagnò verso la fine della strage di Capaci. L’articolo che Leonardo Sciascia scrisse sui professionisti dell’antimafia era profetico in alcuni sensi, ma come ricordò Borsellino quel giorno Falcone iniziò a morire.

«Quello dell’antimafia è uno scenario affollato – afferma lo storico Salvatore Lupo –, che potrebbe giustificare qualche contro-polemica “alla Sciascia”, nel complesso, penso che l’antimafia rappresenti una grande risorsa civile e istituzionale del paese, il lascito positivo di un drammatico passato».

La fine dello stragismo non equivale alla fine della mafia, bensì l’ha ricondotta a una dimensione carsica simile alla sua lunga storia che pone sfide nuove anche all’antimafia. Che cosa è diventato e quali sono le prospettive del movimento sociale e culturale nato dalla reazione al terrorismo di stampo mafioso?

«Questa domanda mi suscita un senso di disorientamento – testimonia Tina Montinaro – seppure dopo le stragi sia stato realizzato un cambiamento reale. Il vestito della legalità, indossato da molte figure che sono state erroneamente elette a simboli antimafia, ha aperto le porte anche ai disonesti e ha fatto perdere lungo la strada la partecipazione di molte persone che avevano interessi sinceri. L’antimafia deve recuperare credibilità ed energia, perché quando la mafia non spara sembra che non esista, mentre permea sempre a maggiori profondità i gangli vitali della società».

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