Di Stefano Ballerio
Per il percorso narrativo “Tutti in guerra. Nessuno escluso” 


In una lettera a Gabriel Astruc del novembre 1914, Marcel Proust racconta che suo fratello Robert,partito per il fronte come medico, si era subito trovato a lavorare sotto le bombe, con le schegge di granata che gli piovevano sul tavolo operatorio, e di seguito aggiunge: «È molto umiliante, mentre tutti prestano servizio, essere così inutile». Riformato per le sue precarie condizioni di salute, Proust avrebbe seguito il conflitto tramite i giornali e le lettere di amici e parenti partiti per il fronte e intanto – e oltre, fino alla morte nel 1922 – si sarebbe impegnato nella scrittura del suo romanzo con la dedizione assoluta che il monito evangelico, mediato da Ruskin, prescrive agli artisti: lavorate finché avete la luce. Oltre il primo sentimento di umiliazione della lettera ad Astruc, e contro la pressione sociale a contribuire alla mobilitazione, avrebbe agito, più profondo, l’imperativo della scrittura.

La vergogna è però un sentimento con il quale chi non parta per il fronte vergnognadeve fare i conti e ciò sembra valere soprattutto per gli artisti, il cui lavoro non offre un contributo evidente allo sforzo bellico nazionale: se le donne possono almeno cucire divise e così «fare la propria parte», come scrive Jessie Pope nella sua famigerata Are WeDownhearted? – No!, che cosa fanno gli scrittori per i loro connazionali in trincea? «Noi che abbiamo conosciuto la vergogna – dicono i soldati di Rupert Brook in Peace (1914) – là siamo stati liberati» (v. 9). Ma che cosa possono dire gli scrittori lontani dal fronte? Era inevitabile che la mobilisation by shame, organizzata in propaganda o come più spontanea dinamica sociale, agisse su di loro. Al poeta, narratore e drammaturgo Richard Dehmel, il 14 dicembre 1914, Thomas Mann scrive di essersi «vergognato molto», nell’apprendere cheDehmel sarebbe andato a combattere, e che quella «vergogna» lo aveva spinto a scrivere e pubblicare i suoi Pensieri di guerra (1914): per assecondare il proprio «bisogno di mettere almeno la sua mente al diretto servizio della causa tedesca». Così sentiva Mann prima che l’esperienza di Weimar, dopo la fine della guerra, e il successivo avvento del Nazismo, con la scelta dell’esilio americano, lo portassero a rimeditare le proprie idee sulla scrittura di fronte alla nazione e alla democrazia.

Stefano Ballerio
Ricercatore del progetto “La Grande Trasformazione 1914-1918”