Interpretazioni del Natale di guerra
«Un armistizio chiesto dal nemico per seppellire i morti fu da noi accordato». Così recita un bollettino tedesco del 26 dicembre 1914, che «L’illustrazione italiana» riporta nel suo numero del 3 gennaio 1915. Della tregua di Natale non si dice altro, nel bollettino, e le comunicazioni ufficiali in generale oscurarono la stanchezza della guerra espressa dagli episodi di fraternizzazione con il nemico che ebbero luogo sul fronte occidentale a Natale e nei giorni precedenti: inglesi, francesi e belgi da una parte e tedeschi dall’altra interruppero il fuoco e si incontrarono nella terra di nessuno per seppellire i morti, salutarsi, scattare fotografie, cantare, scambiare cibo e oggetti ogiocare a pallone. Le notizie filtrarono con le lettere dal fronte che sfuggirono alla censura e raggiunsero i civili e i giornali locali in patria, ma i comandi cercarono di limitarne la circolazione e di dirigerne l’interpretazione: il comportamento onorevole dei propri soldati, pietosi verso i morti e magnanimi con il nemico, poteva essere rappresentato; l’avversione per la guerra doveva essere oscurata.
Anche la scrittura letteraria partecipa a queste dinamiche di formazione del significato degli eventi. Ancora «L’illustrazione italiana», il 27 dicembre 1914, pubblica un racconto di Paola Lombroso intitolato Il vischio di Natale: il capitano Le France, di stanza presso Arras, riceve due giorni di congedo per festeggiare il Natale con la propria famiglia. Un commilitone lo carica sul proprio aeroplano elo porta a casa in tempo per il pranzo con la sposa bionda e i quattro figli. La violenza della guerra, descritta ai bambini come «un giuoco meraviglioso con cannoncini, batterie, mitragliatrici, bravi soldatini», è interamente rimossa. Il racconto si concentra invece sulla famiglia del capitano, sul rito natalizio e sulla trasmissione di una cultura patriarcale. Nei figli giudiziosi, nella moglie «prudente ed economa» e nel padre custode dell’«antico costume», quella cultura tramanda se stessa e la propria interpretazione della guerra. È impossibile leggere nel testo una diversa visione degli eventi: la concentrazione su simboli e valori tradizionali e la rimozione di ciò che non vi si conforma vincolano l’interpretazione del testo e della realtà rappresentata.
Il tema del Natale, in tempo di guerra, sembra prestarsi a queste scritture che tendono al controllo.Nel 1911 Giovanni Pascoli aveva dedicato «ai marinai e soldati in Tripolitania» una poesia – La notte di Natale – che di nuovo propone una rappresentazione univoca della guerra (guerra coloniale, in questo caso) mediante una scrittura che non si offre a interpretazioni divergenti. Il testo allude dapprima alla diversa condizione degli Italiani in patria e in guerra – «Là non le squille suonano a gloria», «non lumi a festa per tutto brillano» –, ma poi le palme e gli ulivi del Nord Africa diventano simboli evangelici e i soldati «martiri in croce», mentre la loro condizione si rivela sacra come il rito celebrato in patria: «Là tutto è santo!». La guerra è travestita nel linguaggio della tradizione epica e la realtà della morte è rimossa prima e ricreata poi come martirio, ovvero sterilizzata e sacralizzata, con una «cooptazione del simbolo e del rituale cristiani al fine di consacrare la vita e la morte del soldato» che– scrive George L. Mosse – «avrebbe giocato un ruolo cruciale nel Mito dell’Esperienza della Guerra».
Giovanni Pascoli, La notte di Natale, 1911
Ai marinai e soldati in Tripolitania nel Natale del MCMXI
Sopra la terra le squille suonano
il mattutino. Passa una nuvola
candida e sola.
L’Italia! L’Italia che vola!
che passa in alto con tutte l’anime
nostre com’una sola grande anima!
Dice: – Là, io
trascorra la notte di Dio!
Là non le squille suonano a gloria;
non le zampogne querule cantano
la pastorale
che suscita un battere d’ale,
non lumi a festa per tutto brillano
come se a cena tutti il lor angiolo
ci abbiano, biondo,
dei tanti discesi sul mondo,
non arde il ceppo che s’apre e crepita
quando col bimbo viene la Vergine,
ch’entra e soave,
ciò che le fu detto, dice: Ave!
Là balenare d’armi, là subite
luci, là rotte grida, là murmuri
come da tombe,
là squilli improvvisi di trombe.
Sì. Ma più sacra m’è quella tenebra,
tra palme e ulivi, sotto le nomadi
tende. Là, sento,
si veglia aspettando l’avvento!
Là, tutto è santo! Vegliano, credono,
attenti al cielo, pronti a rispondere
alla sua voce!
Là, sono anche i martiri in croce… –
Altre scritture, però, si prestano a letture meno univoche. L’inglese Bruce Bairnsfather pubblica nel 1916 uno scritto autobiografico – Bullets & Billets – che comprende il racconto della tregua di Natale del 1914. Qui Bairnsfather scrive di essersi abbandonato a fantasticare che la giornata potesse concludersi con la notizia improvvisa, portata da un telegrafista, della fine della guerra, ma allo stesso tempo afferma che la volontà dei soldati inglesi di combattere e sconfiggere i tedeschi non eramai venuta meno. L’ambivalenza dei sentimenti descritti impedisce la riduzione dell’episodio e del suo racconto a versioni unilaterali, mentre parti diverse del dibattito sulla guerra trovano un’eco nella scrittura: se le voci contro il militarismo risuonano nel sogno della pace inaspettata, l’affermazione della perdurante volontà di combattere sembra rispondere a coloro che avrebbero potuto censurare quel sogno come cedimento e in questo modo ne evoca i discorsi. Così la scrittura diventa polifonica, ricreando in se stessa l’eterogeneità degli eventi e delle visioni.
La stessa tendenza polifonica si incontra in un racconto che Robert Graves scrive sulla tregua del 1914 – Christmas Truce – adecenni di distanza dall’evento, nel 1962. I due narratori, reduci della Grande Guerra, raccontano al nipote pacifista di uno di loro della tregua del 1914, di episodi analoghi del 1915 e del progressivo esaurirsi della fiducia dei soldati nella possibilità della pace. Il significato della storia resta conteso tra l’idealismo del nipote, che vuole scorgervi i segni del rifiuto della guerra da parte degli uomini, e la disillusione del nonno, che non crede più alla loro volontà di pace ed è pronto ad accettare l’equilibrio del terrore dell’era atomica.L’interpretazione, del racconto come della guerra, torna a carico del lettore.
Stefano Ballerio