Lo spirito della guerra presente e le condizioni di pace per l’Europa futura
«La tregua di Natale per noi non è altro che
un lento proseguire della guerra»
da Torneranno i prati di Ermanno Olmi (2014)
«Il Natale, come tutte le ricorrenze religiose e tradizionali, serve magnificamente a nascondere le contraddizioni che la società […] crea fra la parola e il fatto, fra la leggenda e la realtà, fra la promessa non mantenuta e la pratica quotidiana della vita.». Così, su L’Avanti. Giornale del Partito Socialista, venerdì 25 dicembre, un acceso editoriale anti-militarista presenta il «Natale 1914».
È il primo momento – a cinque mesi dalla Grande Conflagrazione mondiale del Novecento – di quella rottura epocale che vedrà la fine della tradizionale, lungo-ottocentesca dinamica di alternanza tra pace e guerra. Nella routine feroce dell’inverno in trincea, infatti, sembra impantanarsi anche la distinzione, tanto nelle politiche strategiche sul campo quanto nell’esperienza reale di milioni di persone, tra il tempo della vita civile e quello della vita militare, tra la tregua e il combattimento.
In effetti, nel primo dicembre di guerra, prima ancora che si possano solo immaginare i quattro lunghi inverni di distruzione che l’umanità dovrà attraversare, il discorso dominante, in politica e nei capannelli fuori dai caffè d’Europa, rivela il congelamento delle risoluzioni di pace nella scansione di un conflitto perenne e che non distingue più nemmeno tra combattenti e civili. Gli uni impegnati a ritagliarsi una tregua fittizia, fatta di piccoli gesti e oggetti familiari e infantili nel turbinio di una apocalisse in terra; gli altri presi da una mobilitazione interna per affrontare bellicamente lo stato d’eccezione del Natale.
Al di là di straordinari episodi di fraternizzazione tra i soldati sui fronti opposti – ora come allora oggetto di visioni della Grande Guerra da cartolina natalizia –, sopra i vivi e i morti sepolti nella neve, sopra l’isolamento affettivo delle trincee europee, sui bombardamenti, sulle violenze gratuite ai civili nei villaggi intorno alle zone di guerra, aleggia uno spirito nefasto che riduce la pace futura a pura fatalità, promessa velata e minacciosa. Prende così avvio quella trasformazione moderna delle condizioni materiali, delle strategie politiche, della percezione e della rappresentazione collettive dell’ordine naturale del mondo: dove alla guerra succede una pace e a un’altra pace, una guerra ancora.
In questo disorientamento generale, la «Nazione in armi» s’incarna in una religione laica animata dalla retorica della Redenzione che si fa più radicale proprio sotto le festività dell’Avvento. La morte del soldato come quella dell’anno appena trascorso e non pacificato, diventano il martirio augurabile per la vittoria della Patria «ora in balìa di ogni invasore, i suoi angoli memori […] sconciati e distrutti. Essa non è più la custodia delle memorie e degli affetti, è aperta come la strada in cui passa il tumulto della guerra […]. E il santuario non è più che un bivacco o un ospedale». In questo «presepe disperso» la madre e il bambino sono violati dalla furia degli eventi e il padre è esiliato – o già cadavere – sul fronte di guerra. Della capanna di Betlemme, «ultimo tratto d’unione tra la vecchia fede e gli uomini nuovi», non restano che le macerie e le norme emanate dalle nazioni coinvolte per impedire il ripetersi di episodi di fraternizzazione.
Ne «L’Italia esitante», durante l’inverno tra il ’14 e il ’15, questo spirito guerrafondaio – una sorta di «Spirito del Natale Futuro» che nel ’15 immobilizzerà l’esercito nella Guerra Bianca sulle Alpi – ha già sembianze austroungariche e sacralizza il dibattito politico tra la nuova fede ecumenica del Socialismo pacifista e l’apostolato interventista dell’alta borghesia cattolica, votata al «castigo di Dio» contro il nemico tedesco.
È in questa pericolosa osmosi natalizia tra il linguaggio di guerra e la retorica religiosa che si realizza l’investitura politica di Benedetto XV, il papa inascoltato dei numerosi appelli, allocuzioni e note ai governi belligeranti, che richiama i fedeli ad «assidue e fervide preghiere per fare dolce violenza al cuore» evidentemente indurito «di Gesù», lo stesso Sacro Cuore cui pure permette si consacrino tutti gli eserciti nazionali.
Così, ogni dicembre di guerra, il maleficio dello «Spirito del Natale Futuro» fa fallire le politiche wilsoniane di una Società delle Nazioni in pace, come pure l’ipotesi di un arbitrato pontificio su «l’inutile strage», quel «forte richiamo alle irrinunciabili radici cristiane» di un’Europa, in effetti, ancora congelata nell’inverno di guerra del ’14.
Erica Grossi