New York University e Agora Europe

L’acqua costituisce circa il 70% del globo, percentuale rappresentata prevalentemente dagli oceani. Lo stesso vale per il nostro corpo. Tutto si collega a questo elemento vitale, in continuo movimento, emblema del viaggio, che tuttavia negli ultimi decenni è stato associato spesso all’opposto della vita, del movimento, all’estenuante attesa, ai naufragi invisibili.

Quello che fa il mare per noi, per la nostra vita, è assolutamente fondamentale. Oltre a rappresentare una risorsa di cibo, il mare influenza la temperatura, mantiene il clima temperato. È un luogo che non è il nostro ambiente, ma che è parte fondamentale del nostro pianeta e se non se non riusciremo a difenderlo ci troveremo di fronte a un grave problema.

Acqua significa navigazione, viaggio, orizzonte. Acqua significa anche risorsa, ed il senso dell’acqua assume forme diverse, come le numerose campagne di Amref ci dimostrano, a seconda della prospettiva geografica da cui si guarda quell’orizzonte che è il mare, l’oceano.

La serie di Agora EuropeOtherside//Europe”, cominciata a Columbia University, New York, nel novembre 2019 e proseguita nel club di vela di Hendaye (sede dell’associazione), Francia, e online, si propone di raccontare l’Europa dall’altra parte, da oltreoceano e oltreconfine. Queste iniziative sono volte a creare occasioni di dialogo, fungere da ponte e connettere realtà differenti, sulla frontiera in cui il mondo della vela si interseca a quello ambientale e delle migrazioni, coinvolgendo anche il mondo della ricerca. La serie affronta il tema dell’acqua come frontiera insieme a chi il mare lo vive ogni giorno e in mare ha fatto l’esperienza di essere salvato e di avere salvato. Oggi, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, lo facciamo insieme a Giovanni Soldini, che col trimarano Maserati Multi70, reduce da lunghi mesi di cantiere a Bocca di Magra, ha appena stabilito due nuovi record sulle rotte Monaco-Saint-Tropez e Monaco-Porto Cervo.


Caterina: Gio, per te l’acqua significa un sacco di cose: significa navigazione, ma anche risorsa – ricordo che hai promosso con Amref la questione dell’acqua e il senso dell’acqua in Africa – ti sei impegnato col salvataggio in mare e hai attraversato oceani e poi che hai fatto?

Giovanni: Più o meno ho fatto questo, non si può fare tutto. Sicuramente, il tema del mare, del salvataggio in mare, dell’acqua come frontiera, è un tema che mi è molto vicino, perché la prima legge di qualsiasi marinaio, la prima legge del mare, è che in mare la vita umana si salva. In mare prima si salva poi si pensa. È in realtà una legge che viene da molto lontano, da una cultura millenaria, e che incredibilmente è recentemente messa in discussione dai paesi cosiddetti sviluppati, da quelli che dovrebbero essere il faro nella notte. Questa situazione incresciosa non è però moderna, è infatti ormai qualche decennio che i paesi avanzati hanno incominciato a fare politiche in qualche modo contrarie a questa legge del mare. Hanno criminalizzato il salvataggio in mare. Chi salva diventa responsabile. Questa, dal punto di vista di un marinaio, è una cosa folle.

C: A te è capitato di salvare in mare – Isabelle Autissier, durante la terza tappa dell’Around Alone nel 1999 – e di essere stato salvato – durante il naufragio del trimarano Tim Progetto Italia nel 2005.

G: Ho salvato una naufraga, però sono anche stato salvato da una petroliera che arrivava dal Golfo Persico, una delle navi più grosse al mondo, che, per intenderci, non passa attraverso il canale di Panama e non può entrare in porto. Io mi ero cappottato insieme al mio amico Vittorio Malingri sul trimarano, e ci hanno ripescati in mezzo all’oceano, a 1000 miglia da Dakar verso ovest. Anche se si trattava di una regata internazionale, ed eravamo dunque molto protetti, è stata un’attesa estenuante, ci siamo fatti 20 giorni di navigazione, a bordo di quest’affare perlomeno inquietante. Ma poi quando siamo arrivati davanti a Houston nessuno ci ha voluto portare a terra, malgrado avessimo tutti e due il visto per gli Stati Uniti indefinito, il passaporto e una sfilza di carte di credito, perché eravamo naufragati. Ci abbiamo messo 10 giorni per scendere e alla fine abbiamo dovuto affittare un elicottero perché altrimenti saremmo ripartiti con la nave. Questo perché negli Stati Uniti, come in Europa, come in Italia, come in tutti i Paesi sviluppati in realtà chi porta a terra un naufrago ne diventa totalmente responsabile e anzi nel caso dell’Italia può essere anche accusato di essere uno scafista.

C: Un taxista del mare. Spesso, infatti, come sanno in tanti, troppi naufraghi approdati sulle nostre coste e su altre sponde lontane, l’esperienza del naufragio non finisce col salvataggio in mare.

G: No, ma tieni conto che noi comunque eravamo molto protetti, se fossimo stati dei naufraghi senza un passaporto giusto e se non avessimo avuto una certa copertura non voglio immaginare cosa sarebbe potuto succedere, perché alla fine per una nave, per l’armatore della nave, tu sei solo un grande problema. Alla fine, in mezzo al mare non ti vede nessuno. Un problema del genere si risolve in un attimo, nel senso che ti prendono e ti fiondano a mare senza pensarci due volte, anche perché le navi oggi sono dei luoghi incredibili, il comandante di una petroliera del genere ha responsabilità enormi, se fa un errore succede un disastro ambientale irreparabile. Tuttavia, viene stipendiato per 7 mesi, cioè il tempo del suo imbarco, quando finisce il turno viene rimandato a casa, dove non è in vacanza, non prende lo stipendio, ma è temporaneamente licenziato e viene richiamato solo se non ha dato problemi, per cui quella che una volta, diciamo all’inizio del secolo, era una figura rispettata, quella del comandante di una nave, e rappresentava un ruolo socialmente riconosciuto, oggi è completamente sminuita e anche tutto il suo potere, il suo potere di critica verso l’armatore per esempio, non esiste più. Il comandante è in balia dell’armatore e se si permette di dar fastidio allo svolgimento delle operazioni, incorrerà in problemi enormi, il che è molto grave, perché in caso di incidenti, la responsabilità è del comandante, il quale però non viene messo in grado di incidere sulla gestione della nave. E alla fine con i naufraghi è la stessa cosa: se c’è una nave che si ferma, lo fa perché lo decide il suo comandante, ma tale decisione innescherà dei problemi con l’armatore, perché se si rimane bloccati di fronte ai porti si possono perdere 15 giorni in attesa che i naufraghi vengano fatti scendere (38 nel caso della Maersk Etienne, ndr). Una nave che resta ferma costa dai 30.000 ai 60.000 euro al giorno e quindi nessuna nave avrà interesse a rispettare la legge del mare.



C: Per l’armatore della nave, l’altro è solo un problema. E un problema in mezzo al mare è meglio che resti invisibile. Questa è la condizione che vivono tutti i naufraghi in mare attualmente, dalle nostre coste alle Canarie, fino in Australia. L’ultima edizione del Vendée Globe (il giro del mondo in solitaria senza scalo e senza assistenza, ndr) ha fatto riemergere anche nel mondo della navigazione oceanica due temi che ci sono molto cari: il salvataggio in mare e l’inquinamento degli oceani. Dopo il salvataggio dello scorso 1° dicembre di Kevin Escoffier, Jean le Cam ha affermato: “soccorrere fa parte del nostro mestiere”. Mentre l’innalzamento della zona di esclusione antartica sempre più a nord rende evidente che a mano a mano che le temperature si alzano si alza anche la linea degli iceberg.

G: Sì, è qualcosa che salta agli occhi. Vent’anni fa navigavamo 10 gradi più in basso. Isabelle quando l’ho salvata era 60 a sud, ora navigano a 40 e lottano contro alte pressioni.

C: C’è poi la questione degli oggetti non identificati, non solo nel Pacifico, ma anche nel nostro mare.

G: Ma in realtà in tutti i mari. I mari sono sempre più densi di plastica. Il problema è che negli anni la plastica si accumula, si sbriciola cristallizzandosi per effetto del sole e scende in profondità. Quello che possiamo vedere in superficie non è che una piccola parte. Siamo di fronte a una terribile emergenza, ma non è un tema che tocca le persone da vicino, perché ovviamente si sta parlando di un luogo che è enorme e che sembra infinito, che sembra anche pieno di risorse infinite, ma che in realtà è finito e ha delle risorse finite. Se non impariamo a rispettarlo e a conviverci nella maniera giusta, sarà un problema insormontabile dei prossimi decenni.

C: è bello che ci siano sempre più navigatori oceanici che si interessano ai temi delle migrazioni e della protezione degli oceani, anche perché percorrete rotte che non fa nessun altro, e quindi raccogliete dati che non sarebbero accessibili in altro modo, come ha fatto ad esempio Jon Sanders negli oceani del sud durante la sua undicesima circumnavigazione.



G: Sicuramente, ma è anche naturale, no? Visto che comunque viviamo…

C: Comunque vi serve, quell’acqua là!

G: Esatto! Comunque ci passiamo del tempo, diventiamo più sensibili ovviamente.

C: Si è appena svolta la trentaseiesima America’s Cup, con la nostra Luna Rossa nel ruolo di challenger; cosa puoi dirci delle nuove frontiere della vela?

G: In realtà la Coppa America per tanti anni è rimasta ancorata a vecchie tradizioni mentre noi avevamo già l’Open 60 Fila. Nelle ultime due edizioni, la Coppa invece ha dato tantissimo al mondo della vela e si è riappropriata del suo ruolo, che è quello di essere all’avanguardia tecnologica, di provare nuove cose. Questa edizione è stata particolarmente interessante perché di fatto c’è stato un passaggio fondamentale, che è stato quello di far volare i multiscafi, mentre adesso è stato reinventato il monoscafo. Luna Rossa è una barca incredibile dove c’è un’ottimizzazione pazzesca dell’aerodinamica e quindi si possono superare molte frontiere. Il punto è che ognuno deve avere il suo tempo, alla fine aggrapparsi al passato non serve a niente, si rimane semplicemente indietro, cioè il passato è passato, adesso bisogna guardare al futuro, perché se non guardi al futuro alla fine ti perdi dei pezzi.

C: Rimanendo sul tema dell’acqua come frontiera, e più in generale delle frontiere, la recente pandemia ha in un qualche modo modificato la nostra percezione; le frontiere sono diventate per così dire più interrazziali, ed anche noi veniamo fermati. Per la prima volta, almeno per chi è cresciuto con Schengen, sperimentiamo le pratiche delle frontiere chiuse, dell’impossibilità di movimento.

G: Anche per noi che abbiamo vissuto l’Europa prima in realtà ormai siamo talmente abituati al fatto che le frontiere non ci sono più che solo l’idea di trovare delle frontiere chiuse ci getta nel panico, nello sconforto più totale. E questo è un problema, penso, che dovrebbe far pensare un po’ di più le persone. Alla fine, uno dà sempre tutto per scontato e invece per far l’Europa si è fatto un sacco di fatica e alla fine non tutto è perfetto però è qualcosa che va difeso, perché è ovvio che anche in questo caso non si può rinunciare al futuro, il futuro è l’Europa.

C: L’Europa nasceva come progetto di pace, ma adesso c’è chi, come Etienne Balibar, co-fondatore di Agora Europe, parla di genocidi nei mari, e fino a quando i genocidi accadevano nel Mediterraneo, restavano in un qualche modo ancora visibili, ma il fatto è che adesso si svolgono nell’Atlantico. E così come avviene per la questione delle plastiche, ciò che avviene nell’Atlantico non ci tocca da vicino, resta lontano, in uno spazio molto più vasto in cui i numeri diventano invisibili. L’immagine del Mediterraneo cimitero riusciva a sconvolgere gli animi, ma ora che i naufragi avvengono in pieno Atlantico, non c’è nessuno a guardare.



G: Sì sconvolgeva un po’ ma sempre troppo poco, voglio dire, sono tragedie allucinanti, frutto di una politica cieca e completamente ottusa, soprattutto per l’Italia. Il dramma dell’Italia è che nessuno più fa figli e nessuno ne parla. Quest’anno c’è stato un record negativo assoluto. Un Paese in queste condizioni è un Paese destinato a sparire, a non contare più niente, ad andare in declino. Inoltre, abbiamo un debito pubblico enorme e se facciamo meno figli vuol dire che peserà di più su quelli che ci sono. Il nostro vero problema è la mancanza di cittadini italiani. Qui in realtà l’immigrazione per noi è assolutamente necessaria, non è un’opzione: se non abbiamo i migranti noi siamo spacciati. Il punto è che questa politica ottusa non porta a niente perché noi dovremmo in realtà dare dei visti, far venire le persone con gli aeroplani. Alla fine, quelli che arrivano sono gli stessi che sceglieremmo. Chi decide di affrontare un viaggio che può costare anche 20.000 dollari perché nel proprio Paese non è possibile avere una prospettiva di vita, appartiene in realtà all’élite di quel Paese. Chi non ha soldi per mangiare non si sposta, rimane lì, aspetta, e vive quello che si può vivere. Chi cambia Paese è spesso chi se lo può permettere, sono cioè gli stessi che sceglieremmo di ricevere, e che però arrivano dopo un viaggio che magari dura un anno, due anni, che li vede finire nelle mani delle mafie, in un campo di concentramento, ed alla fine sono disposti pure a rischiare la vita attraversando il Mediterraneo o l’Atlantico a bordo di un gommone che sta a galla per miracolo. Quelle persone noi dovremmo invece sceglierle e farle venire con un visto in aeroplano, e cambierebbe la vita per loro e per noi. Solo che siamo ottusi e quindi continuiamo a perseguire queste politiche che non hanno nessun senso.

C: L’Europa si vuole impermeabile al fenomeno umano delle migrazioni. Le politiche di esternalizzazione delle frontiere bloccano le persone in movimento ai confini. Dai lager libici ai centri di detenzione alle Canarie, dai campi in Bosnia al Mediterraneo cimitero, dalle mura alte 6 metri a Ceuta e Melilla ai tunnel di Calais, le persone in movimento vengono respinte fuori, nelle periferie e nelle isole lontane. È chiaro che i canali legali per le migrazioni dovrebbero essere la risposta, ed è chiaro anche che il nostro problema non è l’immigrazione, ma l’emigrazione.

G: Esatto, perché non solo non facciamo figli ma tutti i nostri giovani una volta che si laureano, che sono preparati, prendono e se ne vanno, perché questo paese non ha nessun tipo di prospettiva futura o comunque sempre meno.

C: Mi viene in mente quella frase di Moitessier che diceva che i navigatori vogliono portare la barca “verso una linea dell’orizzonte che la barca non raggiungerà mai”.

G: Eh sì perché gli si sposta!

C: Cosa ha rappresentato e cosa continua a rappresentare per te l’oceano?

G: La libertà, in qualche modo, e un luogo che non è un luogo ma è un ambiente che ti permette di andare dall’altra parte del mondo senza fermarti dal benzinaio, e questa è la cosa che in realtà mi ha sempre affascinato.

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