Non solo storia – Calendario Civile \ #18marzo 1871
Parlare della Comune, oggi, significa prendere in carico non il fascino del mito, ma il groviglio della politica, le incertezze e il tentativo di un esperimento che contemporaneamente sogna futuro, ma non si sottrae dal prendere in carica e proporre risoluzioni e atti per dare una nuova forma al presente.
Il dato, dunque, è questo: i settantun giorni della Comune di Parigi (18 marzo – 27 maggio 1871) sono rimasti nella memoria collettiva in due scene che appunto alludono al mito: da una parte l’abbattimento della colonna a Place Vendôme, come atto che indica il rifiuto del militarismo (scena che ogni volta che è tornato a essere piazza lo slogan «mai più guerra» non ha mancato di ripresentarsi come matrice fondativa del sogno). Dall’altra il muro dei Federati, dove tra il 28 e il 31 maggio 1871 sono fucilati i capi della Comune e accumulati i corpi dei comunardi uccisi: quel muro inavvicinabile fino al 1885, divenuto monumento nel 1909, che prima ancora di narrare la storia della Comune ne fonda il mito.
È il luogo dove molte manifestazioni oggi terminano o che richiamano quando al centro della mobilitazione c’è lo slogan «io esisto».
La Comune di Parigi però non fu solo eroismo, fu progetto politico, e nel poco tempo che ebbe fu anche governo e dunque leggi, decisioni legislative, attuazione di decreti.
Riassumiamo velocemente ricordando alcuni dei decreti che la Comune emana:
- abolizione dell’esercito permanente e creazione della Guardia nazionale. Vuol dire che tutti i cittadini sono chiamati a sentirsi Stato;
- separazione dello Stato dalla Chiesa, ovvero la assunzione di una dimensione di laicità dello Stato;
- allargamento dei diritti delle donne, prima di tutto il diritto alla tutela nel luogo di lavoro; ma anche tutela della salute e parificazione salariale;
- abolizione del lavoro notturno.
- emanazione del decreto della laicità della scuola inclusivo di pari trattamento salariale per uomini e donne;
- diritto all’istruzione per tutti i cittadini.
Forse questo, più del mito e della morte eroica spiega il mito della Comune e il fatto che ogni volta che – nel tempo – si è proposta la questione del “governo dal basso”, la Comune di Parigi sia tornata a fare capolino nella lingua pubblica, negli slogan, nell’immaginario.
Vale nelle esperienze di governo dal basso e più generalmente nelle pratiche in cui lo Stato si presenta come lontano, talvolta come “estraneo”, non necessariamente come nemico. In breve, ogni qualvolta si è posto il problema che qualcuno proponesse di sperimentare forme di autogoverno, in qualche modo l’immagine della Comune ha fatto di nuovo capolino.
“Una questione di nomi che ritornano”, diranno molti. Noi pensiamo che quell’esperienza, anche in forza della sua fine tragica, dica molte cose.
È accaduto nelle varie esperienze consigliari dell’immediato primo dopoguerra (Monaco, Budapest, Torino; Berlino); è accaduto a Shangai e a Canton nella primavera 1927, quando si chiude la prima fase della Rivoluzione cinese e i nazionalisti di Chiang Kai-shek uccidono ufficialmente 300 esponenti del movimento comunista e dei consigli operai delle realtà di fabbrica e di quartiere (5000 sono le persone dichiarate “disperse”) che poi con alterne vicende giunge a compimento nell’ottobre 1949; è accaduto di nuovo nel settembre-ottobre 1934, nelle lotte dei minatori delle Asturie; è di nuovo accaduto a Barcellona, quando nei primi mesi della guerra civile, la realtà dell’organizzazione dal basso dei servizi pubblici e dell’organizzazione del lavoro in fabbrica sembra dare un nuovo volto al vecchio sogno dell’autonomia catalana, i cui primi sintomi sono nel 1898 dopo la sconfitta della Spagna da parte degli Stati Uniti nella guerra per Cuba, sconfitta che segna il crollo, dopo quattro secoli, dell’Impero spagnolo; è accaduto nelle molte forme di amministrazione dal basso del’68; è accaduto in varie forme nei fenomeni intorno alla costruzione del movimento di Seattle; poi è tornato ad accadere nel corso dei molti luoghi di autogoverno di «Occupy Wall Street».
È anche accaduto nella riflessione che prova a ripensare il governo municipale dal basso già all’inizio del Novecento in Italia, in Francia, in Belgio, nella Vienna Rossa dell’immediato primo dopoguerra. Laddove ogni volta si è profilata la possibilità di un’autonomia di governo del territorio, questo non ha voluto dire solo una forma diversa dell’amministrazione pubblica, ma un’apertura di percorsi in cui al centro stava l’idea che agli amministrati spettasse un compito di presenza, di ambiti di decisione, comunque di non essere solo ed esclusivamente attori passivi, bensì decisori, innovatori di pratiche di governo.
Le esperienze consigliari si raccontano in relazione non solo al progetto politico, ma per l’uso che fanno delle esperienze politiche del passato in relazione alle sfide del presente. Il tema è dunque la coesistenza nel vissuto politico di ciò che si sperimenta nel presente e di ciò che si va a cercare nel passato, nelle precedenti esperienze politiche e sociali, per dare legittimità alla propria azione, ma anche per dare fondatezza al proprio progetto.
Ovvero: come si legge il presente sulla scorta delle lezioni della storia su cui quel linguaggio costruisce la propria idea di sviluppo storico (e dunque anche di strategia, di parole d’ordine da adottare, di scelte politiche).
È l’esperienza della Comune di Parigi o, più precisamente, l’immagine che si usa di quella vicenda, a costituire un aspetto rilevante di come si faccia lettura del presente.
È un aspetto su cui la storiografia è venuta riflettendo in occasione del centenario della Comune di Parigi, anche sulla scorta delle letture politiche e culturali che hanno come sfondo le vicende ravvicinate del ’68. Una riflessione che nel momento in cui connette indagine su un evento con la memoria che nel tempo quell’evento conserva, riconoscendogli valore, richiama questioni e temi che raccontano come l’esperienza e anche il “trauma” della sconfitta della Comune abbiano segnato almeno due generazioni di militanti tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e il primo quarto del Novecento.
I settantun giorni della Comune di Parigi sono rimasti nella memoria collettiva in poche scene che sono anche parte del suo mito. Ma poi si tratta di riempirlo, quel mito, e trovare sollecitazioni e stimoli per “pensare futuro” e non smettere di dare forma al sogno. O almeno non rinunciarci.
Certo quel mito si regge su molte cose anche se lavora prevalentemente – e qui riprendiamo una distinzione canonica proposta e dallo storico Georges Haupt nel 1971 – verso una dimensione simbolica e si distacca da una esemplare.
La prima, la dimensione simbolica, è volta ad allargare il campo della ricerca e intraprendere strade inesplorate dal punto di vista “politico”. Insomma, a non pensare in maniera sistematica, ma a inventare e creare nuove forme della partecipazione. La seconda, quella esemplare, è volta a idealizzare il modello, ovvero ad assumerlo come canone. È quindi costituzionalmente attenta a valutare eterodossie, ortodossie, tradimenti dell’idea.
La dimensione simbolica, proprio per il suo carattere di allusività, è indirizzata a capire il funzionamento di ciò che quelle diverse dinamiche di partecipazione generano. L’obiettivo è non avere una visione iconica, ma adottarla come spunto e poi dare spazio alla creatività politica, a individuare, insomma, nuove piste di impegno, di presenza, di trasformazione della realtà data. In breve, a non assumere il presente come immodificabile e allo stesso tempo a non muoversi avendo dietro un catechismo che detta le regole su come progettare il futuro o uscire dal presente.
Il che indica che il problema non è mai liberarsi dal passato, ma non farsi governare dalle esperienze del passato idealizzandole. All’opposto, la sollecitazione è a coglierle, ogni volta, come storie di rottura, di creatività, di innovazione. Esperienze che partono da una assunzione del presente in tutte le sue contraddizioni e stimoli, e a immergersi dentro quel presente per modificarlo radicalmente. Ad avere (s)punti generativi di immaginario dal passato, ma senza esser soggiogati alla sua immagine.
L’invito non è dunque a ripetere il passato, ma a vedere ogni volta come si sia creata innovazione, «novità», anche, e forse soprattutto, da una sconfitta cocente subita.
In altre parole perché il ricominciare daccapo non sia ripetizione consolativa, ma abbia nel suo carburante la creatività, ovvero, senza trascurare che quei percorsi vivono, si sviluppano, non chiudendosi in eremi a leccarsi ferite, ma spronino a misurarsi e ai coinvolgere molti attori diversi tra loro, anzi affascinanti e interessanti proprio per le loro reciproche diversità. Serve rimettere lentamente in moto una macchina che vive il presente come condizione stretta, che sta male nelle scarpe che indossa, e che dunque chiede e si propone con curiosità, passione, voglia di futuro.
Insieme.