Università degli studi di Milano
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In molti paesi la chiusura di scuole e università è stata una delle prime azioni decise dalle autorità per limitare la diffusione della pandemia da Covid-19. Le attività scolastiche possono infatti diffondere il contagio, perché concentrano in una situazione di prossimità fisica molte persone, che poi fanno ritorno a casa, a volte con spostamenti su lunga distanza che coinvolgono il trasporto pubblico. Durante il periodo di chiusura, le attività scolastiche sono quindi proseguite a distanza, “da remoto”. 

È importante, a questo proposito, non confondere la remotizzazione della scuola con la sua digitalizzazione. La digitalizzazione consiste nell’utilizzo di strumenti digitali per sostenere e potenziare la normale didattica in presenza, mentre la remotizzazione consiste nell’abolizione della presenza e nel passaggio completo delle attività didattiche alla modalità remota. La digitalizzazione della scuola procede ormai da tre decenni, mentre la remotizzazione integrale delle attività scolastiche non sembra essere in nessun paese nell’agenda delle politiche dell’istruzione, in particolare per quanto riguarda la scuola dell’obbligo.

Tra le funzioni della scuola, infatti, non rientra solo la trasmissione di competenze cognitive, ma anche la socializzazione, cioè l’insegnamento delle regole e delle strutture di base dell’interazione sociale, processo che per sua stessa natura non può avere luogo che in prossimità. Inoltre, la concentrazione degli alunni in un solo luogo è utile anche per altre ragioni, tra cui quella di scaricare i genitori, in particolare le madri, dai compiti di cura, consentendo di svolgere un’attività retribuita fuori dalla propria abitazione. Questa è una funzione che la scuola da remoto non può svolgere, se non – in modo molto parziale – per i genitori che lavorano da casa.

La remotizzazione della scuola ha effetti di disuguaglianza? Sicuramente a livello macro si osserva una diversa capacità delle scuole di organizzare la didattica da remoto. Questa capacità, in media, è maggiore all’università e negli ultimi anni di liceo, e minore nelle scuole dell’infanzia e primarie, ed è maggiore nei contesti avvantaggiati, ad esempio il centro urbano di un capoluogo, e minore nei contesti svantaggiati, ad esempio le aree interne montuose. Esiste inoltre un secondo fattore di disuguaglianza, a livello micro, legato alla diversa capacità delle famiglie di fornire ai figli gli strumenti necessari per la scuola da remoto, e più in generale di sostenerli nelle loro attività scolastiche.

Dalla ricerca sappiamo che le differenze di apprendimento a favore degli alunni con origini familiari migliori rimangono stabili, o diminuiscono, durante i periodi di frequenza scolastica, ed aumentano nei periodi di pausa dalla scuola, per esempio le vacanze estive. Durante le vacanze i bambini passano gran parte del tempo in famiglia, dove sono esposti ai diversi stimoli associati alla diversa estrazione sociale e culturale dei genitori, mentre durante l’anno scolastico essi passano parte del loro tempo a scuola, dove sono sottoposti a stimoli relativamente omogenei. Le vacanze estive producono disuguaglianze di apprendimento, mentre la scuola le riduce, perché diminuisce, o compensa, l’impatto stratificato del contesto familiare sull’apprendimento. Lo stesso accade con la scuola da remoto, in generale meno coinvolgente di quella in presenza e più vincolata alle risorse disponibili in famiglia.

Le nostre analisi (su dati PISA 2018 per l’Italia, quindi precedenti alla pandemia) mostrano che, se la quasi totalità degli studenti quindicenni possiede un accesso a internet, un computer e uno smartphone, indipendentemente dall’istruzione (e quindi dalla posizione sociale) dei genitori, la disponibilità di strumenti digitali meno diffusi, come il tablet e l’e-book, è correlata positivamente con il titolo di studio dei genitori. Inoltre, se si considera la quantità di strumenti digitali disponibili in casa, solo la metà dei figli di genitori con la licenza media possiede almeno due computer, contro i tre quarti delle famiglie in cui almeno un genitore è laureato. Questo è ancora più rilevante se si pensa che in media le famiglie meno istruite sono anche quelle con più figli, dove quindi è maggiore la probabilità di dover condividere computer o tablet.

Hanno effetti simili anche le differenze nelle attività di supporto genitoriale ai figli. In generale, i genitori con titolo di studio più elevato sono più disponibili ad aiutare i figli per i compiti, a coinvolgerli nella discussione su letture e temi sociali, nella partecipazione ad attività formative e culturali. Questa associazione è più forte quando i figli sono più piccoli e il loro apprendimento può essere più influenzato negativamente da un’interruzione della scuola. Non solo le risorse digitali e le attività di sostegno genitoriale sono più frequenti nelle famiglie avvantaggiate, ma in questi contesti esse sembrano anche più efficaci. I figli dei laureati, infatti, sembrano trarre beneficio maggiore sia dalla presenza in casa di strumenti digitali che dall’aiuto dei genitori.

La remotizzazione della scuola comporta in definitiva costi notevoli, in termini di qualità dell’insegnamento, di indebolimento della funzione di socializzazione della scuola, e anche in termini di disuguaglianze di apprendimento. La scuola da remoto richiede la presenza in casa di strumenti digitali adeguati, e la disponibilità dei genitori ad attivarsi per aiutare i figli: in entrambi i casi c’è un netto differenziale a vantaggio dei bambini di genitori più istruiti. Pertanto, è molto probabile che la remotizzazione della scuola durante la pandemia abbia avuto un effetto disequalizzatore, non solo perché la sua diffusione (come alternativa alla pura e semplice chiusura) è stata differenziata per aree geografiche, livello scolastico e tipo di scuola, ma anche a causa dei più generali meccanismi che legano famiglia, scuola e apprendimento.

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