Università degli Studi di Pavia

Nella sua versione coriacea il diritto si esprime attraverso comandi la cui trasgressione comporta l’applicazione di una sanzione (Jellinek). Nella sua versione più asettica, il diritto è l’insieme degli schemi di qualificazione entro cui sussumere i casi della vita secondo un nesso di causalità (Kelsen). Nella sua versione più mite il diritto è la strada che conduce alla giustizia (Zagrebelsky). E, così, lo Stato evoca la forza, avendone il monopolio. Le istituzioni celebrano il potere che, pur limitato dal diritto e ripartito tra diversi organi, si cala imperioso sui consociati indifesi.

Il diritto, attraverso i soggetti che ne perseguono l’effettività, aspira ad offrire ai consociati un assetto ordinato di regole allo scopo di presidiare il pacifico svolgimento delle relazioni intersoggettive. Norme generali e astratte, sanzioni, forze dell’ordine, apparato giudiziario: tutto ciò per dettare le regole del gioco di una pacifica e ordinata convivenza.

Quanto è rimasto di questa configurazione del diritto con la pandemia?

Il Parlamento ha smarrito la propria centralità, accelerando un processo che era però già in atto da qualche anno e che aveva visto il graduale spostamento dell’equilibrio istituzionale verso l’esecutivo. Il Governo, in una società sempre più veloce e fluida (la “società liquida” di Bauman), meglio di altri organi è in grado di intercettare i bisogni, sempre mutevoli, dei singoli e della comunità, e di fornire risposte rapide. Questa revisione dell’originario equilibrio alimentato dalla divisione dei poteri ha generato torsioni nella struttura democratica che, pur provvista di una ragionevole duttilità, nondimeno non sempre riesce a sopportare scossoni e tensioni troppo accentuate.

Dal canto suo il Presidente della Repubblica, da sempre immaginato come il supremo moderatore chiamato a garantire il dialogo e la leale collaborazione tra i poteri dello Stato attraverso la moral suasion, si è ritrovato in un ruolo più attivo e impegnativo, esprimendo un quotidiano sforzo di mediazione e di impulso per far funzionare le istituzioni: un ruolo, questo, che però non è del tutto corrispondente al suo identikit costituzionale.

Il principio autonomista ha vacillato sotto il peso di un confronto aspro e caotico tra il centro e le istituzioni territoriali: Regioni in ordine sparso e comuni gestiti senza una visione d’insieme, hanno interagito con un esecutivo nazionale che oscilla dalla mansueta accettazione degli orientamenti espressi a livello locale ad una unilaterale assunzione di decisioni uniformi per tutto il Paese.

Sullo sfondo si staglia la “crisi dello Stato” (Cassese) la cui sovranità, anche per effetto della pandemia, risulta ulteriormente indebolita da un confronto sfibrante con altri Paesi che non hanno la stessa percezione della gravità del momento.

Se questa è, sommariamente, la cornice istituzionale profondamente scossa dalla pandemia, non è difficile immaginare le ricadute che un simile movimento tellurico ha prodotto sul versante delle fonti normative e, più in generale, sul senso ultimo del diritto.

Se è vero che la riserva di legge prevista dalla Costituzione a presidio delle libertà fondamentali può essere soddisfatta anche da un decreto legge (e, infatti, il Governo è intervenuto più volte con questo atto), la disciplina più capillare e pervasiva è stata fissata da atti amministrativi, qual è il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri: uno strumento sì snello e veloce, ma destinato ad incidere in una materia in cui il confronto tra maggioranza e opposizione dovrebbe essere garantito al massimo delle potenzialità imposte dalla Costituzione.

Peraltro, l’uso frequente ed esclusivo del d.P.C.M. ha fatto sì che il terreno di scontro tra lo Stato e i singoli si stia spostando verso quello del giudizio amministrativo (t.a.r., in primo grado, e Consiglio di Stato, in appello), ossia una forma di tutela meno intensa e qualificata rispetto al giudizio ordinario quando sono in gioco i diritti fondamentali.

Per non parlare delle fonti di cognizione, visto che alla Gazzetta ufficiale si è sostituito internet. La rete non fa che ospitare annunci di regolamentazioni, prime bozze, dichiarazioni e smentite, sintesi effettuate sulla base di ipotesi di disciplina, e tutto ciò non fa che mortificare le esigenze di certezza del diritto che sono alla base di un ordinamento civile e maturo.

Ciò che, però, colpisce di più è la proliferazione di contenuti normativi divergenti rispetto alla tipologia classica del precetto giuridico che prescrive o vieta un dato comportamento, descrivendolo in modo puntuale, pena l’irrogazione di una sanzione. Molti comportamenti sono, infatti, “raccomandati” e, dunque, facoltizzano senza lasciare pienamente liberi gli interessati. Si tratta di norme che suggeriscono caldamente l’assunzione di certi contegni, confidando sulla collaborazione dei destinatari, ma senza che sia inequivocabilmente chiara la linea di confine tra ciò che è dovuto giuridicamente e ciò che è rimesso alla sfera di autonomia dei singoli. Tant’è vero che una deviazione dal modello consigliato da queste raccomandazioni potrebbe, in ipotesi, essere qualificata come una forma di negligenza o di imprudenza ove s’intendesse far valere in giudizio la responsabilità colposa in caso di danno cagionato a terzi. Del resto, nel diritto anglo-americano uniformarsi ad una “raccomandazione” riflette una doverosa diligenza (due care) da parte dei consociati.

È vero, ogni stato di emergenza trascina con sé il rischio di eccezioni sin troppo vistose alle regole ordinarie che sovrintendono tanto ai rapporti tra privati, quanto alle relazioni di questi con l’autorità. E l’ordinamento reca al proprio interno gli strumenti e le procedure per fronteggiare queste situazioni senza far arretrare le garanzie essenziali dello Stato di diritto.

Tuttavia, sarebbe improduttivo indugiare sulle sole anomalie che la pandemia ha alimentato su questo versante, mettendo in discussione il ruolo basilare del diritto e delle norme giuridiche. Piuttosto, può apparire più proficuo e lungimirante considerare questo evento come un’occasione per rivedere il nostro rapporto con il diritto e con le sue istituzioni, come opportunità per riannodare il legame con il potere attraverso un ripensamento complessivo del senso ultimo del patto con lo Stato.

Come ha sapientemente scritto un autentico Maestro del diritto, Paolo Grossi, nella sua Prima lezione di diritto (Laterza, Bari-Roma, 2003, pag. 10), «una realtà di comandi imperativi è fuori della cultura circolante e rischia di essere un corpo estraneo non solo per il povero uomo comune ma per l’intera società, perché è fuori della storia, del faticoso ma incessante divenire quotidiano di tutti».

La pandemia sollecita una inedita e rinnovata socialità del diritto: non più un complesso di regole calato dall’alto, ma un insieme di modelli di comportamento che si affermano e si affinano progressivamente grazie all’azione spontanea e concertata dei consociati.

Il diritto, come percepito e praticato sino ad oggi, è impotente ogni volta che l’osservanza delle regole venga imposta all’interno delle mura domestiche, vale a dire spazi dove possono materializzarsi atti potenzialmente nocivi (feste private, pranzi e cene con numeri elevati di ospiti) e che, nondimeno, sfuggono ad un controllo capillare e sistematico ad opera delle forze dell’ordine.

Il rispetto delle regole, come ha dimostrato la pandemia, non può essere il frutto della sola imposizione coattiva, non può più essere sorretto dalla mera paura della sanzione, non può più riposare anodinamente sul riconoscimento della legittimazione democratica del potere. La pur indefettibile “fede nel diritto” (Calamandrei) non può essere il pretesto per esimerci dalle nostre responsabilità quali anonimi e indistinti destinatari di norme giuridiche. Essendo noi persone che con altri condividono un comune percorso sociale, sia pure assecondando diverse aspirazioni e inclinazioni, il nostro compito è concorrere a definire le regole della convivenza civile in uno spirito di reciproca solidarietà e coesione sociale. Così facendo, il diritto non verrebbe percepito come un corpo estraneo, una entità aliena alle nostre vite, uno strumento di oppressione volto a soffocare le nostre libertà. La pandemia, pur nella sua soffocante drammaticità, preme per una rinnovata “coscienza giuridica” (Ross) che responsabilizzi ognuno di noi quali artefici, e non meri fruitori, delle regole del gioco. In questo sforzo i consociati debbono essere assistiti da nuove e più inclusive forme di comunicazione per favorire una più consapevole comprensione delle regole (Hart).

Rispetto alla interpretazione individualistica di Bruno Leoni, per il quale il diritto è un «invenire» nella pratica quotidiana delle relazioni tra uomini liberi, una nuova socialità del diritto, occasionata dalla pandemia in corso, reclama un approccio solidale, essendo chiaro che le azioni di ogni consociato hanno inesorabilmente ripercussioni sugli altri, specie se sono in gioco la salute e la vita stessa delle persone. Le libertà assumerebbero una nuova fisionomia quali momenti di celebrazione di un vissuto comune, e non solo spazi di autorealizzazione individuale. Così, atti come la vaccinazione (si veda il magistrale contributo di Lorenzo Rampa su questo Sillabario) non verrebbero percepiti come costrizioni paternalistiche, né come libere e insindacabili scelte individuali, ma come la consapevole adesione ad un condiviso destino comunitario. E lo stesso vale per i dispositivi individuali di protezione o i divieti di assembramento o le limitazioni all’accesso agli spazi pubblici.

Il diritto, calato nella vita concreta non solo nel momento della sua applicazione ma ancor prima nella sua fase genetica, non farebbe che assecondare virtuosamente questa consapevole adesione.

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