Pubblichiamo qui di seguito un estratto dal saggio di Francesco Caruso e Martina Lo Cascio contenuto nel volume a cura di Luca Cigna Forza Lavoro! Ripensare il lavoro al tempo della pandemia, Milano, Fondazione G. Feltrinelli, 2020.
La crisi pandemica infatti ha messo in luce l’imprescindibilità della componente migrante per la tenuta dell’agricoltura italiana (così come di molti altri paesi del Nord globale) e al tempo stesso la condizione di invisibilità giuridico-amministrativa di molti lavoratori non italiani: con la chiusura delle frontiere e il conseguente rallentamento dei flussi migratori stagionali dei lavoratori agricoli dall’Est Europa e dai Paesi del Maghreb, le organizzazioni datoriali già nel marzo 2020 hanno lanciato l’allarme sulla mancanza di braccia nelle filiere soprattutto ortofrutticole, fortemente condizionate e dipendenti dalla “specializzazione etnica” del lavoro agricolo.
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Da anni la letteratura scientifica ha posto in evidenza come il duro lavoro bracciantile sia caratterizzato dal tentativo continuo di emancipazione e fuga dei lavoratori da questo settore e la conseguente necessità di reclutamento di nuove figure sociali, sempre più precarie e fragili.
Da allora la presenza di diverse nazionalità nei campi è diventata un fattore di concorrenza e di ulteriore stratificazione all’interno dello stesso bracciantato migrante, con continui cicli di sostituzione: i migranti di più lungo insediamento, maghrebini e albanesi, occupano ormai le posizioni lavorative non solo più stabili e remunerate, ma anche con differenti ruoli di specializzazione e di responsabilità, sgravando in molti casi anche i più piccoli proprietari terrieri dal lavoro manuale e permettendo loro di concentrarsi sulla gestione “manageriale” dell’azienda; a questi si sono aggiunti in numero consistente, dopo l’allargamento ad Est dell’Unione Europea e la crisi economica del 2008, i lavoratori polacchi, bulgari e rumeni, protagonisti in alcuni casi anche di migrazioni circolari, anche se nel corso degli ultimissimi anni la loro presenza inizia a diminuire, avendo loro maggiori margini di mobilità in virtù della cittadinanza europea. Infine, i migranti subsahariani che occupano il gradino più basso del lavoro agricolo, caratterizzato da bassa remunerazione, ricerca di impiego soprattutto nelle “grandi raccolte” stagionali, estrema precarietà, mansioni gravose e continuo turn-over. È a quest’ultimo gruppo di lavoratori che ha fatto riferimento il Ministro dell’agricoltura presentando il provvedimento di sanatoria nella primavera 2020.
A fronte di questa stratificazione, il dato sui Paesi di provenienza di coloro che hanno fatto richiesta di emersione è abbastanza indicativo: le prime dieci nazionalità raccolgono oltre l’80% delle 29.555 domande di regolarizzazione in agricoltura, eppure tra queste l’unica componente subsahariana sono i senegalesi, con 1.265 domande. Spicca invece il primato di albanesi (5.176) e marocchini (4.556), rispetto ai quali raramente, negli ultimi anni, si è denunciata una condizione di diffusa irregolarità, in particolare tra i lavoratori agricoli. Numeri così alti per queste due nazionalità sembrano per lo più spiegabili se si guarda al ruolo giocato dalle reti e catene migratorie dei migranti di più lungo insediamento, che hanno conquistato un radicamento territoriale e un capitale reputazionale in grado di attivare e orientare anche i percorsi di regolarizzazione: “Mio cugino Ahmed mi ha chiamato e mi ha detto di aver convinto il suo padrone a farmi la regolarizzazione, tutto ovviamente a spese mie. Non mi conosce, ma conosce bene Ahmed e sa bene che siamo una famiglia di grandi lavoratori” (int. a Said, neobracciante marocchino).
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