Pubblichiamo qui di seguito un estratto dal saggio di Armanda Cetrulo e Maria Enrica Virgillito contenuto nel volume a cura di Luca Cigna Forza Lavoro! Ripensare il lavoro al tempo della pandemia, Milano, Fondazione G. Feltrinelli, 2020.
L’esplosione della pandemia Covid-19 e le conseguenti misure di lockdown e distanziamento sociale hanno messo a dura prova la tenuta dei sistemi produttivi, economici e sociali su scala globale.
Sebbene sia ancora prematuro tracciare un quadro comprensivo degli effetti eterogenei della pandemia sulle donne, diverse evidenze empiriche documentano il fenomeno di “she-recession” per sottolineare l’impatto differenziato della pandemia sulle donne, sia per fattori legati alla segregazione occupazionale in settori duramente colpiti della chiusura, come turismo e ristorazione, che per una distribuzione fortemente sbilanciata del carico domestico che induce alcune donne ad abbandonare la propria attività lavorativa per prendersi cura dei figli.
I rischi, le vulnerabilità e i disagi socioeconomici ricaduti sulle donne si intersecano nella fase pandemica. Da una parte molte lavoratrici hanno continuato a lavorare poiché impiegate nei cosiddetti settori essenziali e, dall’altra, coloro che svolgevano lavori domestici e di cura, come per esempio colf e badanti, sono state largamente impossibilitate ad accedere a sostegni economici a causa della natura prevalentemente irregolare dei rapporti di lavoro (si stima che a fronte di circa 860mila lavoratori regolari, vi siano circa 1,2 milioni di irregolari).
Pertanto, analizzare e mappare le vulnerabilità caratterizzanti le diverse professioni intersecando la dimensione di genere risulta davvero urgente. La pandemia e il blocco forzato delle attività hanno infatti scoperto il vaso di pandora delle contraddizioni insite al modello di produzione vigente, la cui riproduzione sociale si basa ampiamente su lavoro sottopagato o non riconosciuto svolto tra le mura domestiche (si vedano per esempio i lavori di Silvia Federici), anche a seguito dell’arretramento dell’erogazione di beni e servizi pubblici da parte dello “stato sociale”. D’altra parte, nonostante lo sdoganamento del lavoro essenziale, è mancata e continua ad essere drammaticamente assente una valorizzazione di quelle professioni in cui il lavoro di cura è prevalente, superando criteri di mera produttività (spesso erroneamente basata sulle retribuzioni ricevute) e che parta dal riconoscimento della dignità del lavoro e dell’importanza di soddisfare veri bisogni collettivi.
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La vicinanza fisica e il contatto frequente con altre persone sono di fatto caratteristiche intrinseche del lavoro di cura ed assistenza. Allo stesso tempo, un grado elevato di prossimità fisica può diventare in contesti pandemici causa di contagio, data la maggiore probabilità di contrarre infezioni, specialmente nelle strutture ospedaliere e nei centri di assistenza per anziani e malati. Purtroppo, a fronte di un rischio intrinsecamente legato alla natura stessa di tali professioni, le misure di protezione volte a garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori non sono state efficaci nel contenere in maniera sostanziale la propagazione del virus, come confermato dall’ultimo report dell’Inail. Secondo le denunce di infortunio per Covid-19 raccolte fino al 31 Agosto 2020, il 71,2% dei casi proviene dal settore sanitario e di assistenza sociale, e le prime cinque professioni per numero di denunce appartengono tutte alla categoria dei lavori definiti sopra (tecnici della salute, medici, professioni qualificate nei servizi personali e personale non qualificato nei servizi sanitari e di istruzione).
Inoltre, considerata la segregazione di genere in tali professioni, non stupisce che il 71,3% del totale dei casi di Covid-19 denunciati sul posto di lavoro riguardi proprio delle lavoratrici donne.
A queste criticità se ne aggiungono altre, più difficilmente quantificabili, che hanno a che vedere con la pressione psicologica a cui sono esposti tali lavoratori, dovuta sia alla natura della prestazione che alla scarsità di operatori a fronte di una domanda crescente, in un contesto di privatizzazioni e taglio delle risorse che ha portato ad un forte sottodimensionamento dei servizi, come è emerso chiaramente in questi mesi di emergenza sanitaria.
Dal lavoro di cura fuori casa a quello in casa, i rischi e le vulnerabilità si stratificano. Le mura domestiche si sono spesso configurate come veicolo di sovraccarico lavorativo e oppressione. Durante i mesi di lockdown, le donne hanno visto drammaticamente comprimersi i propri spazi di autonomia, con l’obbligo di svolgere spesso simultaneamente attività di produzione e riproduzione sociale laddove impiegate in modalità tele-lavoro o, seppur prive di un lavoro retribuito, hanno dovuto incrementare ulteriormente le proprie attività di cura e assistenza nei confronti di figli, anziani o familiari malati, data la chiusura delle scuole e l’impossibilità di accedere a servizi di assistenza medica e sociale di prossimità.
Inoltre, le abitazioni private, lontane dall’essere “focolari” di benessere e svago, ma piuttosto espressione materiale delle fragilità economiche delle famiglie che le abitano, sono diventate teatro di tensioni e conflitti spesso esplosi in episodi di violenza maschile, come dimostra l’incremento delle chiamate al numero antiviolenza 1522, in cui si registra un aumento delle telefonate fatte dai figli per denunciare gli episodi di violenza familiare.
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