Un recente articolo del portale ungherese di informazione Szabad Europa, sottolineava l’assenza dell’Ungheria dalla lista degli stati membri dell’Ue firmatari di una dichiarazione congiunta concepita per chiedere a Mosca il rilascio di Aleksej Naval’nyj. Il documento condannava la repressione dei manifestanti, avvenuta in Russia, affermava il diritto di riunione e quello dei giornalisti di svolgere il loro lavoro liberamente, e chiedeva il rilascio dei dimostranti fermati dalla polizia, oltre che dell’ormai noto dissidente.
L’Ungheria aveva, in questo modo, voltato le spalle all’iniziativa, coerentemente con l’orientamento filorusso del primo ministro Viktor Orbán e del suo governo anche se il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó, intervistato da Euronews sulle violenze da parte della polizia russa contro i dimostranti, avrebbe risposto che il suo Paese supporta la posizione comune dell’Ue sul caso Naval’nyj.
Il portale d’informazione 444 faceva comunque notare che il giorno in cui si manifestava in oltre cento città russe, un gruppetto di cittadini russi si erano riuniti di fronte alla loro ambasciata a Budapest in segno di solidarietà verso Naval’nyj. La polizia ungherese aveva già negato loro il permesso di dimostrare di fronte alla rappresentanza diplomatica fornendo come spiegazione necessità legate alla prevenzione dal virus Covid-19. Le forze dell’ordine avrebbero quindi intimato ai manifestanti di allontanarsi e minacciato di arresto una di loro, una studentessa, che aveva chiesto di restare sul posto.
L’avvicinamento di Budapest a Mosca è cosa risaputa ed è un tratto caratterizzante il sistema attualmente al potere nello Stato danubiano. Sistema che si intende con quello russo per interessi economici e politici e per una certa affinità. Negli anni scorsi l’Ungheria di Orbán ha mostrato contrarietà alle sanzioni occidentali nei confronti della Russia per via della crisi ucraina, frangente nel quale l’esecutivo a guida Fidesz aveva mostrato “comprensione” nei confronti delle autorità russe attirandosi i biasimi di diversi vecchi membri dell’Ue e anche di Stati dell’Europa orientale. In questo rapporto Mosca non era rimasta con le mani in mano e aveva mostrato solidarietà al governo danubiano per il muro al confine con la Serbia, costruito nel 2015, e motivo di riprovazione a livello internazionale.
L’avvicinamento dell’Ungheria di Orbán alla Russia è aspramente criticata dall’opposizione ungherese politica e sociale che vede in questo aspetto un pericolo per il Paese. Coloro i quali non si ritrovano nell’orizzonte politico delineato dal primo ministro accusano il governo, e chiaramente il suo principio ispiratore, di spingere l’Ungheria verso una deriva sempre più antidemocratica, sempre più lontana dall’Europa e dai diritti. La campagna elettorale del 2014 vide le opposizioni liberali e di centro-sinistra sottolineare questa situazione. Gli avversari di Orbán dicevano agli elettori che si trattava di andare alle urne per compiere una scelta di democrazia e optare per un’Ungheria vicina a Bruxelles o a Mosca, con tutte le implicazioni che quest’ultimo aspetto avrebbe comportato. Le argomentazioni dello schieramento opposto a quello governativo, incentrate sul tentativo di presentare il premier e il suo sistema come falsamente legati ai valori patri in quanto intenti a danneggiare il paese, non sortirono, però, l’effetto auspicato dai loro sostenitori.
Orbán vinse per la seconda volta consecutiva, ringraziò i suoi elettori e li invitò a portare avanti, al suo fianco, la battaglia contro i nemici della patria provenienti dall’esterno e coadiuvati dai suoi avversari politici.
Aveva quindi prevalso l’uomo che quattro anni prima si era presentato con successo ai suoi connazionali come unico leader politico ungherese in grado di tutelare gli interessi nazionali. Nel 2014 gli era stata rinnovata la fiducia in modo particolarmente convinto da coloro i quali, intervistati dai giornalisti stranieri, dicevano che Orbán aveva restituito dignità a un popolo. Un popolo comunque diviso e provvisto di una componente che più volte ha manifestato e manifesta tuttora contro il premier portando spesso in corteo striscioni in cui il medesimo è raffigurato al fianco di Putin. E per Orbán quello russo è il tipo di leader adatto ai tempi attuali. Tempi nei quali c’è bisogno, a suo avviso, di sistemi forti e leader forti capaci di difendere i paesi che governano e dare risposte alle richieste di sicurezza espresse dalla gente, da popoli interi minacciati, secondo Orbán, nella loro stessa identità ed esistenza. Il primo ministro ungherese propende, evidentemente, per un’azione politica decisionista che considera il confronto con gli oppositori, in Parlamento, alla stregua di una perdita di tempo. Sostiene i sistemi illiberali, gli unici, a suo modo di vedere, che sanno tenere testa alle istituzioni politiche ed economiche internazionali e agli appetiti delle multinazionali. Afferma che il liberalismo è ormai una tendenza politica decaduta, giunta al capolinea storico e priva di argomenti.
L’amicizia con la Russia, si diceva, è motivo di aspra critica da parte di quel settore di popolazione che non si riconosce nella politica orbaniana e che vede sempre più in pericolo diritti fondamentali come quello alla libertà di stampa (come dimostra ulteriormente la notizia riguardante l’imminente chiusura, per motivi politici, di Klubrádió, l’ultima emittente radiofonica ungherese libera), di espressione di preferenze politiche e di dissenso.
Uno dei prodotti di questo rapporto tra i due sistemi risale all’inizio del 2014 e riguarda un’intesa firmata da Budapest e Mosca in ambito nucleare per la costruzione, da parte russa, di due nuovi reattori destinati ad aggiungersi a quelli già esistenti, quattro per la precisione, nella centrale di Paks, situata a un centinaio di chilometri a sud di Budapest e realizzata negli anni Settanta dall’Unione Sovietica. I socialisti avevano da subito criticato l’accordo che a loro giudizio andava contro gli interessi nazionali. La Russia fornisce all’Ungheria l’80% del petrolio e il 75% del gas, le opposizioni facevano notare che il paese si stava preparando a dipendere da Mosca anche per l’energia nucleare e relative tecnologie di gestione. Il primo ministro Orbán difendeva l’accordo e sosteneva che il fatto di ampliare la capacità della centrale di Paks avrebbe portato alla produzione di energia elettrica, a costi bassi, capace di soddisfare l’80% del fabbisogno nazionale e di creare possibilità di esportazione all’estero.
L’opposizione ribadiva i suoi argomenti e stigmatizzava soprattutto il modo in cui il premier Orbán aveva gestito la questione e il fatto che il medesimo non avesse dato vita a un dibattito preliminare sul tema dell’energia nucleare.
I socialisti accusavano il governo di aver tradito gli interessi nazionali e di averli venduti alla Russia e agli ambienti oligarchici legati al premier e pronti a trarre vantaggi dall’enorme investimento previsto nell’ambito del progetto. Ambienti che sono parte integrante del sistema orbaniano.