Le restrizioni adottate dai governi per frenare la pandemia hanno sollevato in tutto il mondo proteste, se non veri e propri tumulti ispirati sia dal pensiero negazionista che dal disagio economico provocato in ampi strati della popolazione. La parola d’ordine unificante di tali manifestazioni è stata l’invocazione del diritto alle libertà personali.
La parola “libertà” è tra quelle che più ricorrono negli scritti di politologi, economisti e filosofi. Si deve a questi ultimi, in specie a Kant e John Stuart Mill, l’aforisma secondo cui la nostra libertà finisce dove comincia quella degli altri. Se, ad esempio, voglio essere libero di non mettere la mascherina devo tener conto degli effetti di ciò sulle persone che posso incontrare. Infatti se ognuno, prima di uscire di casa, pensasse che è inutile metterla perché la mettono gli altri, alla fine nessuno la metterebbe e tutti si infetterebbero.
Vi sono centinaia di esempi simili, tutti riconducibili al celebre gioco del Dilemma del prigioniero, sulla base dei quali si conclude che in situazioni come questa le scelte individualistiche conducono al risultato socialmente peggiore. Si tratta in sostanza della ben nota giustificazione del ruolo dello Stato nella fornitura di beni pubblici.
Ma nell’invocazione della libertà da parte dei manifestanti contro le restrizioni c’è un argomento più insidioso del generico anti-statalismo. Si tratta della rivendicazione del diritto di non essere trattati come bambini da un governo che, per di più, commette tanti errori. Essendo adulti, e ritenendosi in grado di prendere da soli le necessarie precauzioni di igiene e di distanziamento, i manifestanti protestano contro la costrizione a limitare i propri movimenti o a chiudere le proprie attività. In sostanza contestano non tanto lo Stato in sé, ma il suo intollerabile paternalismo. Anche su questo i libri e gli articoli di filosofi, politologi ed economisti hanno riempito intere biblioteche.
Se il paternalismo è giustificato nel caso dei bambini, in quale misura può esserlo nel caso degli adulti? Il pensiero liberale sostiene che non si debba interferire sulle scelte autonome dei cittadini, purché esse siano volontarie (ovvero non costrette), consapevoli (ovvero informate e razionali) e non rechino danni a terzi. Tuttavia la versione anti-paternalista estrema di tale pensiero arriva a sostenere che persino una scelta inconsapevole, quindi non perfettamente informata e razionale, non debba subire interferenze se non danneggia nessuno.
Il problema centrale di questo argomento riguarda la consapevolezza. Se l’informazione e la razionalità sono imperfette si può, e fino a che punto, interferire su scelte volontarie -benché inconsapevoli – che non recano danni ad altri? Un liberale come John Stuart Mill, nel suo celebre esempio dell’uomo che attraversa un ponte non sapendo che è pericolante, conclude che è moralmente doveroso intervenire per impedirglielo, anche se ciò danneggia solo lui. Ed estende tale dovere anche allo Stato.
Posto che la consapevolezza, presupposto della libertà di agire, dipende sia dall’informazione che dalla razionalità, vorrei ora concentrarmi su quest’ultima. Naturalmente nessuno è disposto a negare che, di fronte a fenomeni inattesi e sconosciuti come l’apparire di un virus così nuovo e aggressivo, gli uomini possano comportarsi in modo irrazionale. Tuttavia si potrebbe legittimamente sostenere che la ragione umana sia in grado di arrivare rapidamente, attraverso un processo di apprendimento degli errori, alla loro correzione e a comportamenti individuali più razionali. Secondo tale argomento la razionalità sarebbe limitata solo temporalmente ma non sistematicamente. Se questo sia vero non può però essere appurato solo da speculazioni filosofiche.
Di recente, la psicologia sociale e l’economia sperimentale hanno documentato, mediante esperimenti su campioni di individui informati e istruiti, come la razionalità possa essere sistematicamente limitata da vari tipi di distorsioni. La principale tra queste riguarda la valutazione delle conseguenze delle proprie azioni. Se uno non ha mai avuto occasione di sperimentare su di sé le conseguenze in termini di contagio della mancata osservanza delle prescrizioni non saprà mai attribuire ad esse il giusto valore.
Gli economisti hanno fatto esperimenti con riferimento al possesso e al consumo di beni. Solo se questi sono già stati posseduti e sperimentati ad essi si attribuisce il corretto valore, e si sarà disposti a spendere una quota appropriata del proprio reddito per ottenerli. Tale effetto è noto come “effetto dotazione”. Un esempio classico è quello dei beni attinenti alla salute e all’istruzione, non a caso definiti meritori. Essi infatti meritano di essere forniti dallo Stato proprio perché sarebbero domandati in misura non ottimale. In questi casi, dunque, il paternalismo dello Stato sembra giustificato.
Altre distorsioni cognitive derivano da situazioni di dissonanza tra opinioni, aspirazioni o previsioni tra loro contrastanti. Un esempio famoso è rappresentato dalla favola della volpe e dell’uva, brillantemente discussa da Jon Elster nel suo libro Sour grapes, in cui la dissonanza fra il desiderio dell’uva e l’incapacità di arrivarvi conduce la volpe a elaborare la conclusione che l’uva è acerba.
Se capita di ascoltare previsioni così contrastanti sulla persistenza della pandemia come quelle di Montagnier (un Premio Nobel dopotutto) e dell’OMS, è inevitabile che si tenda ad eliminare l’effetto sgradevole del contrasto tra le due rifiutandone una e, in genere, preferendo accettare quella che determina meno ansie e disagi. Nel nostro caso quella a cui sono associati meno pericoli e meno rischi. Per quanto questo tipo di dissonanza cognitiva possa sembrare banale e facilmente sormontabile, essa induce gli individui pur avversi ai rischi a sottovalutarli sistematicamente. Gli stessi psicologi tendono a ricorrervi per spiegare il negazionismo. Mentre un altro Premio Nobel, George Akerlof, vi ha ravvisato le condizioni per suggerire precauzioni obbligatorie e assicurazioni pubbliche.
Gli economisti pubblici (o quantomeno la loro maggioranza) reputano dunque che il paternalismo pubblico sia giustificato dalla razionalità (mediamente) limitata dei singoli cittadini.
Certo, la loro conclusione si basa sull’ipotesi che i decisori pubblici commettano sì degli errori, ma siano più capaci dei singoli di correggerli e di superare le distorsioni sistematiche della razionalità. Una discussione di tale ipotesi sarebbe tuttavia troppo lunga e complessa rispetto allo scopo di questo breve scritto.