Che cos’è una catastrofe naturale? E come si differenzia dalle catastrofi indotte dalla guerra su cui finora ci siamo soffermati? Quali i processi di elaborazione della memoria?

Sulle categorie di disastro e catastrofe si è sviluppato un lungo dibattito a partire dal noto volume di Henry Quarantelli What is a Disaster?, pubblicato nel 1998, cui ha fatto seguito, nel La memoria delle catastrofi “naturali”, una nuova edizione nella quale è tornato sul tema aggiornando riflessioni e categorie. In tutti i lavori, pur con differenti declinazioni e metodologie, il disastro viene presentato innanzitutto come un costrutto sociale e non come un evento immutabile e fisso. La catastrofe è la conseguenza di un’interazione fra natura e intervento umano. L’esempio concreto può essere costituito dai terremoti, su cui queste pagine si soffermano: i terremoti sono stati definiti «unnatural disasters» proprio perché la misura della catastrofe in termini di vittime e di devastazioni è prodotta dall’intervento umano e dalla scarsa prevenzione. Dipende poi anche dalla percezione delle vittime, dagli effetti prodotti a livello sociale: ci possono essere poche vittime ma gravi conseguenze sulla popolazione.

In realtà i disastri sono «esperienze sociali ricorrenti e agenti di cambiamento che segnano l’intersezione fra natura e cultura», rappresentano un turning point nella vita pubblica e nelle vite private. Sono, hanno scritto Olson e Gawronski, come una biopsia, un taglio nella società che ne rivela politica, economia e salute sociale.

Possono provocare, in determinate congiunture, accelerazioni fatali che comportano mutamenti politici e socio-economici epocali: il terremoto di Managua del 1972 causò la caduta del dittatore Somoza in Nicaragua e quello del Messico del 1985 portò alla crisi del sistema autoritario che dominava il paese da molti anni, aprendo un processo di transizione verso un sistema multipartitico e liberale. Il ciclone tropicale che colpì l’area orientale del Pakistan nel 1970, provocando la morte di circa 500.000 persone, causò l’insurrezione nazionale e la guerra civile che condusse alla formazione dello stato indipendente del Bangladesh.

La catastrofe può accelerare processi di cambiamento già in atto, come nelle fasi di transizione, verso obiettivi “modernizzanti”. Il terremoto del 1966 in Uzbekistan fu l’occasione per il regime comunista di varare una ricostruzione radicale di Tashkent facendone «la città modello della modernità sovietica nelle periferie arretrate». La modernizzazione richiese la costruzione di strade ampie, piazze e nuovi edifici, e ovviamente il sacrificio di case tradizionali e di interi quartieri. Lo spazio urbano venne completamente ridisegnato e cancellato per sempre quel labirinto di viuzze che univano case, botteghe dei bazar, moschee, karavanseij che si possono vedere ancora nelle mappe ottocentesche.

La ricostruzione storica della catastrofe è la ricostruzione di un evento e insieme di un processo sociale di trasformazione, che ha bisogno di confrontarsi con l’esperienza viva dei soggetti e riportarne la memoria. Come le comunità hanno reagito di fronte al rischio, quali sono state le pratiche empiriche per affrontare il disastro, quali le culture e le conoscenze popolari, le categorie interpretative utilizzate? Quali i traumi collettivi, i gap, le omissioni?

L’oblio impedisce di riorganizzare la vita sociale affrontando a viso aperto il pericolo con la prevenzione. Per questo suscitare e alimentare la memoria dell’evento in sé diventa molto importante. Ed è cruciale fare riemergere una memoria dal basso, perché riconduce all’esperienza della gente e contrasta le narrazioni che tendono ad oscurarla.

Riprendendo le riflessioni di Foucault su pratiche e discorsi, Simpson, nella sua analisi del terremoto del Goujarat del 2001, nota come i discorsi convenzionali e i modi che hanno le agenzie governative e di sviluppo di parlare e scrivere dei disastri servano particolari fini e facciano in modo che emergano alcuni aspetti in particolare. I loro report non parlano mai delle vite della gente comune, che Simpson pone invece al centro della sua specifica prospettiva.

“Noi guardiamo oltre le rovine e le facce e le idee di coloro che sono arrivati per intervenire. […] Quando noi focalizziamo la nostra attenzione su come la gente comune ha interpretato la catastrofe e il periodo successivo, come ha percepito l’intervento del governo, e come è riuscita a ricostruire condizioni di vita accettabili, allora la storia del disastro assume differente senso e logica.”

In un lavoro che compara differenti casi di disastri Oliver-Smith e Hoffman sottolineano l’importanza del metodo etnografico di campo e del modello narrativo per portare alla luce i fenomeni che avvengono nel microcosmo sociale colpito dalla catastrofe e per affrontarne la natura multidimensionale: il comportamento e la risposta al disastro; l’interpretazione culturale del rischio; i cambiamenti sociali e culturali che seguono. «Di fronte alla distruzione la gente costruisce un giudizio, forma una percezione, e inventa una spiegazione. Dopo il disastro ripara e costruisce. Risponde alla calamità o a una calamità potenziale sia raccontando sia reinventando il suo sistema culturale. […] interpreta la sua vulnerabilità, anche con la sua negazione…».

La categoria di vulnerabilità viene proposta da Bankoff e Hilhorst in contrapposizione a un approccio tecnocratico. Invece di vedere i disastri come occorrenze puramente fisiche, che richiedono soluzioni largamente tecnologiche, come era uso fino agli anni Settanta, è meglio considerarli come il risultato delle azioni umane. “[…] mentre il rischio è naturale, il disastro non lo è. […] I processi sociali generano una ineguale esposizione al rischio rendendo alcuni più esposti al rischio di altri. […]”

Cruciale per capire la natura dei disastri è considerare il modo in cui i sistemi umani pongono le persone a rischio fra di loro e in relazione all’ambiente – una relazione che può essere intesa in termini di vulnerabilità individuale, familiare, sociale o di comunità. Il livello di vulnerabilità dipende esso stesso da una combinazione di fattori derivati (ma non interamente) da classe, genere ed etnicità.

Per capire la vulnerabilità, precisano,  «è necessario quindi prendere in considerazione le esperienze e le percezioni delle persone», capire le conoscenze locali, fare emergere le capacità e le possibilità di organizzazione dal basso, costruirne la storia nel tempo. «La vulnerabilità non è solo legata al presente e al futuro ma ugualmente e intimamente è un prodotto del passato».

È importante studiare l’esperienza umana nel processo di trasformazione del paesaggio, nel caso di catastrofi la perdita del villaggio della comunità ma anche la trasformazione dell’ambiente ecologico. La storia degli uomini si inscrive nel paesaggio, come ci ha insegnato Marc Bloch.

 


Da Gabriella Gribaudi, La memoria, i traumi e la storia, Viella, Roma 2020, pp.217-220.
[Si Ringrazia Gabriella Gribaudi e Viella Libreria Editrice per il consenso alla riproduzione]

 

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