Le piazze come luogo della protesta, della deliberazione, dell’indignazione, del cordoglio, hanno segnato la storia, spesso in maniera incontrovertibile. Ci sono le piazze del plebiscito. Ci sono i luoghi di memoria che segnano il calendario civile di un gruppo nazionale. Ci sono le piazze totalitarie e quelle dove si va ad affermare il diritto alla differenza. Ci sono le piazze di esaltazione del potente e quelle che plaudono la sua messa a morte. Ci sono le piazze dell’insurrezione e quelle di liberazione.
Il problema della piazza non è cosa rappresenta di per sé: visti i tanti significati e valori che condensa, visto quanto scivoloso e arbitrario sia il crinale che pretende di distinguere a priori tra “piazze buone” e “piazze cattive”. È semmai significativo come si decide di andarci e come se ne esce. Quale domanda fa da movente alla voglia di esserci e con quali domande si prende la via del ritorno a casa. Uno scarto che ci dice se quell’esperienza rappresenta o meno una “crescita”, stabilendo una differenza – di consapevolezza, di strumenti, di visione, di appartenenza, di possibilità di azione – con il prima.
Non solo. Le piazze sono anche le persone che vanno a vedere, ma poi decidono di rimanere sul marciapiede, incerte, indecise. Spesso, è quella porzione di “zona grigia” a fare la differenza a seconda di come decide di entrare in dialogo o in opposizione con quelli che “sono piazza”. Perché non è vero che chi sta in piazza fa la storia e gli altri, sul marciapiede, la guardano scorrere. Anzi, si potrebbe dire che la storia la fanno anche le “piazze mancate”: le forme di attivazione che ci saremmo potuti attendere e che non si sono date, vuoi per mancanza di piattaforme collettive in grado di mobilitare, vuoi per ritiro dentro a una dimensione solo privata.
Oggi vediamo montare il malcontento sociale, la parola “rabbia” occupa molti titoli dei quotidiani. Già a giugno il Ministro dell’Interno Lamorgese lanciava l’allarme per un autunno segnato da violenza e tensioni sociali.
I sentimenti, le rivendicazioni, le attese, le finalità, le ambizioni, le afflizioni, le forme del risentimento e della mobilitazione stanno a fatica dentro un’unica narrazione.
Come raccontare le piazze di oggi, quale punto di vista scegliere? Chi le anima e chi le popola, quali gruppi sociali le riempiono di disagio crudo, forse sconsiderato ma pur sempre autentico? Chi le manipola e strumentalizza? Quante e quali storie raccontare?
Qui si pone una prima questione: la crisi della rappresentanza ha recesso molti dei legami tra malcontento e organizzazione politica strutturata. Per riprendere un titolo fortunato “Organization of the organizationless” che guardava alle primavere arabe e al ruolo delle tecnologie web nel coordinamento delle piazze viene da chiedersi: come si organizzano tra loro i disorganizzati? Come scattano le piazze oggi? Quanto conta l’appartenenza di classe? In sostanza: se la strutturazione di classe e le cinghie di trasmissione non sono più quelle novecentesche, su che linee corre oggi la protesta?
In secondo luogo, ci si potrebbe chiedere, perché proprio “la piazza”? E ancora, la piazza è solo il luogo fisico? Persone che si danno appuntamento per le vie della città e reclamano il diritto di parola, il diritto a essere ascoltati? O forse dovremmo considerare piazze le nuove forme di attivazione online: le campagne che coagulano gruppi e individui attorno a medesime battaglie? E non sono piazze quelle forme di mutuo-aiuto che istituiscono relazioni solidali fra persone? Le ceste sospese del “se hai dona e se non hai prendi” in cui i vicini si attivano per aiutare chi ha più a bisogno non sono insieme una forma di denuncia di un servizio pubblico che non c’è e insieme una risposta auto-organizzata che rappresenta un’alternativa possibile? Sono piazze le lezioni all’aperto dei maestri che non si arrendono alla sola didattica a distanza, sono piazze le navi che vanno a salvare dei naufraghi e li portano in sicurezza sfidando leggi e decreti? In altri termini, quali sono oggi le forme per esprimere conflitto, ma anche per trovare nuove possibili mediazioni al rialzo?
Ma le domande, se guardiamo al termometro delle emozioni misurate in diversi sondaggi, sono anche di valore psicologico e sociologico: se anche trascurassimo la questione delle infiltrazioni, di quanto i riot di questi giorni – da Napoli a Torino – possano essere stati e pilotati, potremmo chiederci “è rabbia sociale, quella che esprimono, o sono lo specchio di una società di arrabbiati?” (è la domanda che si faceva Nicoletta Gosio nell’incontro con Marina Garces). Il “noi” disegna una piattaforma di azione collettiva o è un plurale maiestatis: vi sono principi comunitari alla base delle mobilitazioni o il bisogno di sfogare frustrazioni individuali? E può la rabbia – se lo chiedeva nel medesimo incontro Marina Garces – divenire vettore di azione trasformativa, stimolo costruttivo al cambiamento e principio di coesione sociale?
Se interroghiamo risentimento, malcontento, disagio sociale, non possiamo trascurare le condizioni materiali di esistenza, quelle condizioni cui rimandano le recenti sollevazioni di piazza, che sono sempre e comunque la contrazione dei salari, dei servizi, delle opportunità, della qualità di vita, dei progetti di futuro. Diventa allora decisivo capire quale bisogno si esprime, quale situazione si denuncia, cosa si chiede e con quali linguaggi.
Se viviamo in società sempre più frammentate e in città sempre più disgregate, è facile immaginare che si diano forme di attivazione che spesso non sono lineari e coerenti. Resta da capire se l’insorgenza “disorganizzata” può solo ambire a una dimensione particolare di interessi parziali che si mobilitano. O se invece c’è ancora spazio per una tensione universalistica, per aspirazioni che non solo consolano nel presente ma tendono alla giustezza di un fine che può e deve trovare rappresentanza politica per una stagione di riforme di lungo periodo.
Quest’ultima questione, come già si accennava, chiama in causa il ruolo dei mediatori. Anche alla luce della poca autorevolezza di forme di rappresentanza collettive credibili, questi momenti di crisi diventano l’occasione per ridefinire i rapporti di forza: sarebbe pertanto interessante anche guardare a come i diversi settori della geografia politica (destra radicale, sinistra antagonista, sinistra socialdemocratica, progressista e riformista, area cattolico-progressista, liberali, etc.) leggono questa temperie, vi si relazionano, giocano la propria partita per acquisire radicamento e consenso. Come agiscono le forze organizzate: vi sono partiti in grado di raccogliere, di distinguere, di capire cosa c’è in questo movimento. E di corrispondere, portando all’attenzione di chi governa non solo le spinte ma anche le idee, le suggestioni, le proposte? Tutto questo non può non incidere anche sulle forme delle istituzioni e della politica, della partecipazione, della democrazia, del rapporto tra potere e cittadini.