Giornalista

Spiegando al cronista in cerca di informazioni sul chi fossero le persone che lunedì scorso a Milano – cogliendo i più di sorpresa – erano scese in piazza per manifestare contro il “coprifuoco” – 28 fermati, un tram danneggiato, una molotov lanciata contro una macchina della polizia locale, petardi e fumogeni – un anarchico di decennale militanza l’ha riassunta così: “È stata la rivolta degli zarri”. Lui in piazza non c’era né gli era arrivata la notizia dell’imminente manifestazione. In strada c’erano andati soggetti fuori da ogni radar del passato. Né destra, né sinistra, né sopra, né sotto, nessuno alla guida e nessuno a tirarne i fili. Quella di Milano, di Roma, di Napoli, di Torino: che piazze sono quindi? Espressione di una generica rabbia a parte, cosa vogliono? Come? Perché?
Il tentativo di categorizzarle secondo i canoni classici (“centri sociali”, “anarchici”, “estrema destra”, “forconi” e così via) è frutto di un riflesso condizionato, della umana necessità di prendere una posizione: erano i buoni oppure i cattivi?

La prima caratteristica generale di questi riot è il modello di convocazione. Nessuna sigla, nessun manifesto, nessuna bandiera, nessuna vera chiamata pubblica, nessuna preparazione. Banalissimi inviti alla protesta che corrono in chat, su Telegram, su Whatsapp, di smartphone in smartphone. Nessuna piattaforma rivendicativa.

Protesta, punto. Pre-politica, individuale, di natura squisitamente estetica. Scendo in strada, urlo la mia incazzatura, mimo lo scontro, torno a casa.

Nel caso di Milano, sono riecheggiati tre soli slogan da stadio: «Libertà, libertà»; «Conte, Conte, vaffanculo»; «Conte, Conte, figlio di puttana». Ragazzi giovanissimi, in maggioranza maschi, molti italiani di seconda generazione. I fermati: praticamente tutti con precedenti e non di natura politica, ma di piccola criminalità di strada. Nel caso di Napoli, invece, lì si è detto di infiltrazioni della camorra, di un moto non spontaneo ma pilotato da ambienti ben precisi, non certo interessati alla politica.
Erano quindi i cattivi? Basta questo per ridurre tutti al rango di teppa?

Se il ribellismo di una notte appare quindi incardinabile come fenomeno estemporaneo, una fiammata a sé che nasce e muore nell’arco di una serata, di concreto, reale e massiccio c’è invece un ancora inespresso ma crescente disagio sociale che la pandemia finirà giocoforza per acuire.
Restando a Milano: dopo due mesi di blocco della città nella scorsa primavera, la cartina della diffusione del COVID-19 elaborata dalla locale Ats consegnava l’immagine perfetta del doppio volto della metropoli. Protetta di fronte a ogni intemperie nel centro, come se la ricchezza mettesse al riparo da qualsiasi malattia. Fragile, in balia degli eventi e della malattia, nelle zone periferiche, quelle oscurate dalle cronache se non per fatti di nera perché non funzionali alla narrazione della città-stato modello economico. La cartina spiegava che in proporzione ci si ammalava di più nei quartieri popolari, sessanta metri quadrati in quattro o cinque e altro che balconi o terrazze o case al mare; e altro che il medico amico anche solo per capire come muoversi nella giungla della sanità pubblica ingolfata – ma chi lo conosce un medico?

A fronte di dati macroeconomici che avevano trasformato la Milano pre-covid nel piccolo sogno americano di milioni di italiani, unico luogo dal respiro internazionale di un Paese in piena “regressione sovranista“, tolto il filtro di Instagram Milano era anche altro: una città dove al proprio interno aumentavano le disuguaglianze, di reddito, di patrimonio e di opportunità; una città dove il lavoro era sempre più frammentato e precario per decine di migliaia di camerieri, riders e finte partite iva; una città dove la questione ambientale si riduceva troppo spesso a operazioni pubblicitarie e dove il prezzo del “place to be” era un’aria che ammorbava i polmoni specie di chi viveva lontano dalla monitorata Area C. Ecco, questo era il prima:

l’oggi e il domani appaiono molto peggio, dove resteranno solo i riders (malpagati come prima) mentre camerieri e finte partita Iva rimarranno disoccupati.

Chi ieri era ai margini, a osservare fuori dalla vetrina, già oggi si ritrova escluso: in vetrina non c’è neanche più nulla. Finite le week, interrotto il turismo, spente le luci della sera, rimane l’esclusione, non semplicemente di natura economica, ma anche culturale, di relazioni, di legami. Incardinarla o cavalcarla politicamente stavolta sarà doppiamente difficile per chiunque. Basteranno le intemerate contro i migranti della destra, specie se poi gli esclusi sono magari figli di quegli immigrati? Funzioneranno i “vaffanculo”, ora che i vaffanculo si sono fatti governo e doppiopetto? Le contraddizioni sono numerose e gli ultimi tentativi di “egemonia” da sinistra sono ormai lontani nel tempo.
Ma nel suo ultimo libro – Dominio (Feltrinelli 2020) – arrivando alle conclusioni Marco D’Eramo riflette che «è ora di ricordare che nulla di buono fu mai ottenuto dalla società senza un conflitto, senza una lotta, senza un’insurrezione, senza una rivolta dei dominati contro i dominanti, degli ignobili contro i nobili».

Gli zarri sono forse ignobili, ma sono di sicuro dei dominati. Esattamente come lo siamo noi.

 

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